Non lasciamo sole le donne di Kabul

11 maggio 2021
Editoriale Open Society
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Le donne afghane, per chi abbia avuto la sorte di visitare il loro bellissimo Paese, dilaniato da decenni di sterminii, rappresentano una testimonianza di valori, tradizioni e cultura. La loro voglia di vivere in una Nazione finalmente pacificata va richiamata nei giorni dello sgomento per la strage delle studentesse a Kabul, ricordando i nomi di Nahid Farid e Shukria Barakzai, due parlamentari che anni fa, in occasione dell’annunciato ritiro delle forze di pace nel 2014, invocavano che fosse mantenuta una forte presenza della comunità internazionale, e il nome di Maria Rashir, coraggiosa Procuratrice per la tutela dei diritti umani, che si salvò miracolosamente da un attentato che avrebbe dovuto uccidere lei e i suoi figli. Invece, non potremo mai conoscere i nomi delle decine di ragazze che nello studio cercavano un mezzo pacifico di riscatto per le donne in Afghanistan. Proprio nella scuola, un luogo sacro per la cultura e la crescita di ogni Paese che tenga alle nuove generazioni, hanno trovato una morte atroce, dilaniate dalle esplosioni programmate da ignoti portatori di stragi, oscurità e ignoranza.

La testimonianza civile che le donne afghane continuano a dare si fonde con ricordi che risalgono ad un anno ormai lontano, il 2012, in cui visitai quel Paese dilaniato da guerre continue e dominato da bande di criminalità organizzata nel traffico di oppio. Nel carcere femminile di Herat, costruito con l’aiuto italiano, incontrai donne che lavoravano alla tessitura di tappeti, mentre altre donne, zie e nonne, accudivano i bambini delle loro sorelle e figlie, grazie ad uno speciale regime concordato con la nostra organizzazione penitenziaria. Un esempio di come la pena possa essere scontata nel rispetto di valori umani, ma anche un esempio di come quelle donne vedessero nel proprio sacrificio un mezzo per far sopravvivere la famiglia. Spesso, mi venne detto, si accusavano infatti di delitti che non avevano commesso per salvare i loro uomini, che ne erano stati autori, da pene ben più severe.

La seconda testimonianza la raccolsi in un padiglione dell’ospedale di Kabul, in cui sono ricoverate le donne sfigurate dal fuoco o dagli acidi e dove immagino siano oggi raccolte le ragazze sfuggite alla morte, ma non agli insulti recati ai loro giovani corpi dalle esplosioni. E, così come le donne bruciate vive da uomini affetti da una cieca ed aberrante violenza o da un medievale senso di possesso, le studentesse ferite dalle bombe sanno bene che la cultura non ha potuto difenderle dalla barbarie di attentatori vigliacchi ed oscurantisti. Ma sono certa che in loro non albergano sentimenti di vendetta, come potei constatare nelle donne che avvicinai anni fa, buttate nel fuoco da uomini che volevano ripudiarle o ne erano ottusamente gelosi. Tra quelle strazianti storie è ancora vivida in me la commozione che suscitò il volto di una giovane dai lineamenti bellissimi, accecata e deturpata dall’acido, forse ad opera della sua stessa famiglia, per aver rifiutato un matrimonio combinato. Mentre le sue compagne di sventura mi raccontavano di bombole del gas esplose in cucina o di inverosimili cadute nel braciere di casa, lei mi cercò la mano, non rispose alle mie domande, ma dai suoi occhi resi vuoti da un cieco e ingiustificabile furore sgorgò una lacrima.

Cosa si può fare perché le lacrime di tutte queste donne innocenti inducano i Paesi più virtuosi a non interrompere i loro interventi di aiuti e di sostegno? Ricordo la disperazione con cui le autorità afghane accolsero la notizia del ritiro parziale delle forze di pace italiane. Ricordo la capacità di donne, uomini e volontari che venivano dal nostro Paese di essere vicini e rendersi utili alla gente di quel Paese. Ricordo la professionalità con cui insegnavano alle donne come gestire piccoli commerci e agli uomini come sottrarsi ai trafficanti di droga. Credo perciò che il sacrificio di queste giovani vite richieda una forte reazione internazionale volta a riportare in quel Paese così sofferente non solo la pace, ma anche condizioni di vita giuste e sostenibili.

 

Questo articolo è precedentemente apparso su La Stampa. Riprodotto per gentile concessione.

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L'autore

Vice Presidente della Luiss Guido Carli con delega alla promozione delle Relazioni Internazionali.


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