La rivoluzione del dibattito sulla condivisione dei rischi in Europa
25 maggio 2021
Fondatrice, professoressa e oggi ricercatrice del Centre of European Union Studies di Salisburgo, in Austria, la politologa Sonja Puntscher-Riekmann conosce a menadito equilibri e meccanismi politici di Bruxelles, oltre a destreggiarsi tra cultura, discorsi – è madrelingua italiana e tedesca – e riflessi dell’Europa settentrionale come pure di quella meridionale. Di recente un suo saggio è apparso anche nella pubblicistica italiana nel libro edito da Il Mulino La crisi dell’Eurozona e l’Europa del Sud curato da Leonardo Morlino e Cecilia Emma Sottilotta.
L’intervista inizia da una riflessione sul suo oggetto di studi più recente, ovvero il concetto di “condivisione dei rischi”, o “risk-sharing”. “La pandemia e la crisi economica che ne è seguita – esordisce la professoressa Puntscher-Riekmann – hanno accelerato questo dibattito, probabilmente per un’unica ragione: la pandemia ha costituito uno shock esterno simmetrico e non asimmetrico come quello di un decennio fa durante la crisi del debito sovrano. Tutti i Paesi dell’Eurozona, seppure non in modo identico, sono stati colpiti dalla crisi attuale. Ciò però non vuol dire necessariamente che tutti i Paesi siano d’accordo su come condividere i rischi”.
Next Generation EU, più comunemente noto in Italia come il “Recovery Fund”, è un primo passo verso forme strutturali di “condivisione del rischio” e del debito oppure, una volta che avremo alle spalle la pandemia e gli effetti più duri della crisi, si tornerà al “ciascun per sé” di prima?
Nella retorica dei Paesi che sono “contribuenti netti” rispetto a questo meccanismo di sostegno straordinario all’economia, Next Generation EU è trattato sempre come un intervento una tantum, dovuto a una situazione d’emergenza. Nei Paesi “frugali”, questo è il discorso standard. I Paesi del sud e dell’est dell’Unione europea sperano invece che queste misure, e in particolare il meccanismo di finanziamento via debito comune, siano qui per durare anche oltre la pandemia. In quest’ottica, ci troveremmo di fronte a quello che qualcuno ha battezzato il “momento Hamilton” dell’integrazione europea. Non posso dire con certezza quale opzione prevarrà. Tuttavia, con una certa cautela, guardo a quanto è accaduto nel passato europeo: una volta che delle istituzioni sono state stabilite, in genere poi rimangono in piedi. La stessa costruzione dell’euro, avviata nei lontani anni 70 dello scorso secolo, è proceduta così, a partire da un impegno sui tassi di cambio tra Paesi membri. Certo, nel caso dell’euro hanno giocato un ruolo anche eventi straordinari – come il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania – e leader straordinari, come Helmut Kohl e François Mitterrand. Più di recente, tale processo non ha smesso di evolversi, come dimostrato dalle misure non convenzionali di politica monetaria della Banca centrale europea, misure che non sembravano contenute nel mandato originario della Bce. La capacità di adattarsi e di evolversi è stata la salvezza dell’euro.
Quali sono le differenze nel dibattito odierno sul risk-sharing rispetto a quanto accaduto ormai dieci anni fa durante la crisi del debito sovrano?
L’atteggiamento nei confronti della condivisione dei rischi è mutato sia al nord che al sud dell’Eurozona. Dal punto di vista dei Paesi frugali, ci sono state concessioni notevoli in termini di solidarietà, come il MES e il Quantitative Easing della Bce. D’altra parte non si può non osservare che i Paesi del Sud hanno accettato sempre più naturalmente le condizionalità legate a questi nuovi strumenti di sostegno o di intervento. La stessa Italia, pur non firmando un Memorandum of Understanding durante la crisi del debito sovrano, ha messo nero su bianco alcune riforme. Dobbiamo pur ricordare che finora i grandi “vincitori” dei vent’anni di moneta unica sono i Paesi del nord, anche se non ci sono ancora moltissimi studi di economisti sul tema.
Insieme al mio gruppo di ricerca ho intervistato ministri ed ex ministri del Tesoro e delle Finanze di tutta Europa, alti burocrati degli stessi ministeri, delle Banche centrali, esponenti dell’élite economico-finanziaria e accademici. Cosa è emerso? Che la posizione dominante in Germania è sempre quella di ridurre prioritariamente i rischi a livello nazionale, prima di condividerli a livello europeo. Da qui anche i timori per il futuro dei fondi distribuiti nell’ambito di Next Generation Eu: a Berlino, e non solo, la paura è che vengano utilizzati non per investimenti sul futuro ma per coprire debiti del passato. Insistere sulla riduzione dei rischi qui ed ora, però, non risolve comunque il problema del debito sovrano in aumento ovunque, come noto. Senza un metodo di mutualizzazione del debito e poi di ristrutturazione dello stesso, non si risolverà mai definitivamente il problema.
Non ci sono solo debito comune e Next Generation Eu. Anche sul fronte dell’Unione bancaria, i timori rispetto al risk sharing non hanno consentito ancora il completamento del processo…
Sull’Unione bancaria, effettivamente, non siamo dove dovremmo essere secondo la tabella di marcia originaria. Permangono i timori soprattutto rispetto alla situazione dei non-performing loans in pancia alle banche italiane. Timori dovuti anche al fatto che nell’attuale Unione bancaria, a fronte di regole e meccanismi di supervisione stringenti, ci sono decine di esenzioni ed eccezioni. L’attuale ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, candidato alla cancelleria per l’SPD, oltre un anno fa si è anche pronunciato a favore di un sistema europeo di assicurazione sui depositi bancari (EDIS), ma mosse concrete in tale direzione non se ne sono viste. Ed è difficile che ne vedremo prima delle elezioni tedesche del prossimo autunno o delle elezioni francesi del prossimo anno. Il problema, ancora una volta, è che i cicli politici dei Paesi membri sembrano determinare il calendario delle riforme europee.
Negli Stati Uniti si discute di una possibile fiammata d’inflazione in arrivo. Si tornano a sollevare dubbi sulla sostenibilità delle politiche monetarie straordinarie, anche in Europa. Ci sono solide ragioni economiche dietro questo dibattito, secondo lei, o solo è un altro modo per gli oppositori del Quantitative easing – e di ogni forma di risk sharing – di farsi sentire?
Premetto che non sono un’economista. Mi pare di capire però che sulle prospettive dell’inflazione ci sia un dibattito molto aperto e poche certezze. Il segretario al Tesoro americano, Janet Yellen, così come la direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, hanno cercato di diffondere calma, hanno chiesto di fatto a mercati e cittadini di pazientare prima di prendere decisioni precipitose. In Germania, certo, l’ossessione dell’inflazione è molto più diffusa. Dietro certi eccessi, però, si nasconde un’atavica insofferenza all’ipotesi di condividere rischi con gli altri Paesi dell’Eurozona, anche per il tramite della Banca centrale.
Cosa pensa del dibattito sulla futura modifica del Patto di Stabilità e Crescita? E quale contributo potrà dare un Paese come l’Italia?
Il contributo dell’Italia, nella fase attuale della storia dell’Eurozona, può essere decisivo in almeno due modi. Primo, il successo di Next Generation EU sarà totale, e riconosciuto anche dai Paesi frugali, se l’Italia spenderà tutte le risorse per investimenti sul futuro e non per coprire defaillances ereditate dal passato. Ciò, come detto, non risolve il tema del debito pubblico, e penso che si debba andare verso una mutualizzazione dello stesso. Quanto al Patto di Stabilità e Crescita, oggi tutti i Paesi europei lo stanno violando, dunque è un dato di fatto che le regole formali siano superate. Non credo comunque che vedremo cambiamenti sostanziali del Patto, anche per non rimettere mano ai Trattati, il che richiederebbe maggioranze molto ampie o persino l’unanimità. Ci sarà una maggiore flessibilità applicata alle regole e allo stesso tempo farà dei passi in avanti il dibattito sulla creazione di “safe asset” e “Eurobond”, oltre che sull’annesso potere di tassazione della Commissione. Il dibattito sarà serrato, il confronto duro, ma ci saranno progressi. E qui arrivo al secondo modo in cui l’Italia potrà risultare decisiva: se oggi in Europa c’è qualcuno che appare qualificato e credibile a sufficienza per condurre un dibattito simile sulla condivisione dei rischi, questo qualcuno è Mario Draghi. Il suo futuro ruolo e dunque il futuro dell’Europa, in questo senso, dipendono dalla stabilità dell’attuale governo italiano.
La professoressa Puntscher-Riekmann ha pprofondito le tematiche sull’integrazione europea in occasione della conferenza EU3D Lecture on the Future of Europe: To share or not to share del 19 maggio 2021.
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