Tasse e potere: le sfide da affrontare
26 maggio 2021
La fiscalità è il cuore della sovranità politica. Per Max Weber (1864-1920), il grande sociologo tedesco, il controllo delle tasse (insieme a quello della forza) costituisce la sostanza dello stato. Nei giorni scorsi sono stati resi pubblici due progetti di riforma fiscale, dell’Amministrazione Biden (il 7 aprile) e della Commissione europea (il 18 maggio), che sollevano i dilemmi propri della sovranità politica di un’epoca (però) di interdipendenze tra stati. Ne considero due in particolare. Il primo riguarda il rapporto tra autorità politiche e mercato globale. Il secondo riguarda la relazione tra gli stati membri dell’Unione europea (Ue) e i governi nazionali.
Cominciamo dal primo. Sia la proposta dell’Amministrazione Biden che quella della Commissione europea si pongono l’obiettivo di riequilibrare i rapporti tra le grandi società multinazionali e le autorità di governo. Tuttavia, la prima proposta, contrariamente alla seconda, definisce con precisione l’obiettivo della riforma, ovvero l’introduzione di una tassa minima globale del 21 per cento, con la possibilità di trovare un accordo intorno al 15 per cento. La nuova tassa riguarda i profitti delle grandi società multinazionali, tra cui i gruppi americani dell’alta tecnologia, relativamente alle vendite realizzate in ogni singolo Paese, indipendentemente dal fatto che quelle società siano fisicamente presenti o meno in quest’ultimo. Per diventare operativa, la proposta americana dovrà ottenere il consenso dei Paesi dell’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) ed essere formalizzata in un accordo internazionale. Prevedibilmente, essa ha suscitato l’opposizione dei membri repubblicani del Congresso che avevano sostenuto le politiche di radicale de-fiscalizzazione portate avanti dalla precedente Amministrazione Trump. La proposta della Commissione europea, invece, che pure indica la necessità di una “riforma internazionale del quadro della tassazione societaria”, non definisce alcun livello di tassazione desiderabile. L’Ue continua ad essere paralizzata dal veto di alcuni suoi stati membri (come i Paesi Bassi e l’Irlanda) che hanno costruito il loro modello di sviluppo su una tassazione molto favorevole nei confronti delle grandi società multinazionali (l’Irlanda ha la corporate tax più bassa, 12,5 per cento, tra i Paesi dell’OCSE). Ecco perché la proposta americana ha subito ricevuto il sostegno convinto dei maggiori Paesi europei (tra cui il nostro), oltre che della Commissione europea. E’ evidente che tale tassa sia necessaria per riequilibrare i rapporti tra le grandi società multinazionali e le esigenze sociali rappresentate dalla politica, specie dopo la crisi pandemica. Durante quest’ultima, i profitti delle grandi società multinazionali tecnologiche sono cresciuti impetuosamente mentre la condizione di molte famiglie nei Paesi avanzati è drammaticamente peggiorata. In Italia, negli ultimi dodici mesi, “poco meno del 40 per cento delle famiglie (non ha disposto di un reddito) sufficiente a coprire le spese” (Bankitalia, Indagine straordinaria sulle famiglie italiane, 21 maggio, si veda anche il Sole 24 ore di ieri). Come si può giustificare tutto ciò?
Vediamo il secondo dilemma, quello che riguarda specificatamente l’Ue. Qui, la proposta della Commissione europea appare reticente, non denunciando l’ingiustizia creata da regimi fiscali nazionali che portano via risorse ad altri regimi fiscali nazionali. E’ evidente che un’organizzazione multilivello, come l’Ue, non può non avere una ragionevole differenziazione tra regimi fiscali nazionali (come avviene anche nei sistemi federali). Tuttavia, è altrettanto evidente che, all’interno del mercato unico, la differenziazione fiscale debba essere contenuta. La proposta della Commissione europea è però anche miope. Seppure vincolata dai Trattati, essa continua a considerare la fiscalità come una prerogativa esclusivamente nazionale, quando nei fatti non è più così. Tant’è che Next Generation EU (NG-EU) verrà finanziato da debito europeo, ripagato da tasse europee, non già da trasferimenti finanziari nazionali. Dopo tutto, il funzionamento sovranazionale del mercato unico produce benefici fiscali che non si capisce perché debbano essere acquisiti esclusivamente dai governi nazionali. La Commissione avrebbe potuto avere più coraggio, proponendo (ad esempio) di utilizzare una parte limitata della corporate tax per dare continuità alla capacità fiscale di Bruxelles. Una capacità necessaria per produrre beni pubblici europei (dalla difesa alla ricerca alle infrastrutture al controllo delle frontiere) e non solamente per sostenere piani nazionali (come nel caso di NG-EU). E’ evidente il condizionamento esercitato da alcuni governi nazionali sulla Commissione, tuttavia sarebbe stato opportuno che anche Ursula von der Leyen, e non solo Paolo Gentiloni, avesse proposto di liberare la politica fiscale europea dalla trappola del voto all’unanimità. Come si può giustificare un simile nazionalismo fiscale?
Insomma, la riforma fiscale è nell’agenda internazionale ed europea. La proposta americana ci fa fare un passo in avanti. Non si può dire lo stresso della proposta europea. Se l’Ue è un sistema multilivello, allora il suo regime fiscale non può essere uni-livello. La capacità fiscale sovranazionale è una condizione per consolidare l’Ue, oltre che per contenere le predisposizioni di spesa nazionali. Se la sovranità fiscale appartenesse solamente agli stati, disse nel 1788 Alexander Hamilton (1755-1804), uno dei padri fondatori dell’unione americana, quest’ultima si indebolirebbe “diventando prigioniera dei loro pregiudizi”.
Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.
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