La conferenza sul futuro dell’Europa: cosa farne?
2 giugno 2021
La Conferenza sul futuro dell’Europa è partita. Il suo scopo è promuovere il dibattito pubblico sul futuro dell’Unione europea (Ue). Un’aspettativa legittima, se non fosse che non siamo nell’agorà ateniese in cui poche migliaia di persone si riuniscono per discutere sulla polis. Tant’è che la Conferenza si è già insabbiata nelle procedure (come coinvolgere i cittadini), trascurando la sostanza (perché rafforzare l’Ue). Di quest’ultima bisognerebbe invece discutere. L’Ue richiede di essere rafforzata non già perché è debole. Anzi, si è dimostrata molto più forte di quanto ritenevano i suoi critici. Va rafforzata perché le sfide che è destinata ad affrontare richiedono un’Ue più efficace e democratica. La sua politica estera non può dipendere dal consenso di 27 governi nazionali (è bastato il veto dell’ungherese Viktor Orban per bloccare, pochi giorni fa, una dichiarazione comune che sollecitava la cessazione delle ostilità tra Hamas e Israele). La sua politica fiscale non può dipendere dal consenso di 27 parlamenti nazionali (il via libera alla “Decisione sulle Risorse Proprie”, che consente alla Commissione europea di emettere debito europeo con cui finanziare i vari piani nazionali di ripresa e resilienza, è giunto solamente pochi giorni fa). Per rafforzarsi, qualsiasi organizzazione deve anticipare le sfide future, non solo adeguarsi a quelle presenti. La Conferenza non si pone questi problemi, ma non è detto che debba trasformarsi in un chiacchiericcio inconcludente. Per evitare quest’ultimo, tre aspetti andrebbero considerati.
Il primo riguarda la prospettiva con cui guardare all’Ue. Occorre discutere dell’Ue (dell’efficacia e legittimità del suo funzionamento), non già di ciò che i cittadini, i parlamenti e i governi nazionali si aspettano da essa. Poiché le istituzioni europee (sovranazionali e intergovernative) non hanno trovato l’accordo sull’agenda dei problemi da affrontare, si sono rivolte ai cittadini per sapere cosa dovrebbero fare. Così facendo, hanno rilanciato la logica nazionale, nonostante le piattaforme multilinguistiche create per fare interagire i cittadini degli stati membri. Che cosa ci si aspetta che i cittadini dicano, se non ribadire i loro pregiudizi o interessi nazionali e locali sull’Ue oltre che sugli altri stati membri? 445 milioni di persone si tengono insieme attraverso un progetto sovranazionale, non già attraverso una molteplicità di richieste nazionali o locali. La Conferenza dovrebbe discutere di quel progetto comune.
Il secondo aspetto riguarda la governance che dovrebbe caratterizzare l’Ue. L’Ue riesce a prendere decisioni collettive solamente quando è sottoposta ad emergenze esistenziali. È stretta tra due logiche che faticano a conciliarsi. Da un lato, c’è la logica intergovernativa del Consiglio europeo (dei capi di governo nazionali) che considera l’Ue come la somma algebrica di 27 stati (e di altri da aggiungere). Poiché in un’unione di stati demograficamente asimmetrici alcuni governi nazionali hanno più influenza di altri, il Consiglio europeo ha istituzionalizzato un sistema di veti per garantire il consenso al suo interno. L’esito è una ricorrente paralisi decisionale. Dall’altro alto, c’è la logica sovranazionale del Parlamento europeo che considera l’Ue uno stato parlamentare, al punto da adottare il modello tedesco degli spitzenkandidaten per eleggere il presidente della Commissione europea. Ma anche qui i conti non tornano perché, se il potere decisionale risiedesse primariamente nel Parlamento europeo, gli stati più grandi conterebbero di più degli stati più piccoli, grazie al maggiore numero dei loro rappresentanti. È vero che questi ultimi sono membri di partiti parlamentari transnazionali, ma è anche vero che, quando si tratta di votare provvedimenti che toccano gli interessi di uno stato, le appartenenze partitiche valgono di meno di quelle nazionali. È necessaria una tregua costituzionale tra il Consiglio europeo e il Parlamento europeo per dare vita ad un sistema decisionale che sia indipendente sia dall’uno che dall’altro. La Conferenza dovrebbe discutere di questa possibilità.
Il terzo aspetto riguarda le politiche da assegnare all’Ue. In un’unione di stati demograficamente asimmetrici e con identità nazionali distinte, la condivisione delle competenze e la cooperazione tra livelli di governo non possono funzionare, in quanto gli stati più grandi e più forti possono condizionare entrambi i processi. Per questo motivo, sul piano costituzionale, tali unioni si basano su una distinzione delle competenze così da definire gli ambiti in cui il centro oppure gli stati hanno il potere dell’ultima parola. Storicamente, nelle unioni di stati, al centro sono state assegnate le competenze relative alla sicurezza collettiva (dalla politica estera e militare alla politica monetaria e fiscale), mentre gli stati hanno trattenuto per sé tutto il resto. L’Ue è andata in direzione opposta. Ha centralizzato le competenze regolatorie del mercato unico, mentre gli stati hanno monopolizzato le competenze relative alla sicurezza collettiva. Occorrerebbe invece ribilanciare le competenze, promuovendo più integrazione di alcune politiche e meno integrazione di altre. La Conferenza dovrebbe discutere di ciò.
In conclusione, la Conferenza può servire ad individuare un’agenda dei problemi che l’Ue dovrebbe affrontare per rafforzarsi. Un’agenda condivisa da una coalizione (transnazionale e interistituzionale) di volenterosi, avente l’obiettivo di definire la natura di “un’unione sempre più stretta” per il Ventunesimo secolo. Poi si vedrà. Intanto, facciamo in modo che questa occasione non venga persa.
Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.
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