Reddito di cittadinanza: utile nei contenuti, da riformare nel metodo
3 giugno 2021
Il reddito di cittadinanza è un provvedimento che ha animato, e anima, il dibattito politico nel nostro Paese, divenendo un cavallo di battaglia sia da parte i suoi sostenitori che dei suoi detrattori. Alla luce dei recenti- ma non primi- scandali di cui è stato oggetto a causa della criminalità organizzata o di semplici, e forse troppo superficiali, truffatori, penso che una riflessione pacata – e al di fuori da dispute partigiane – possa far chiarezza su questo provvedimento, soprattutto alla luce della pandemia che ha aumentato, e non di poco, il disagio sociale. Nel 2020, gli italiani in povertà assoluta, cioè al di sotto della soglia minima di spesa, che significa non riuscire a soddisfare almeno i bisogni primari, sono aumentati di circa un milione, con un incremento dei nuclei familiari in tali condizioni, rispetto al 2019, dal 6,4% al 7,3%. Questo anche in conseguenza di più di 900.000 di posti di lavoro – soprattutto donne e precari – che si sono persi durante il Covid-19. Nel 2020 hanno chiuso 43.000 aziende e quasi 500.000 esercizi commerciali e la ricchezza del nostro Paese è diminuita dell’8,8%, con un aumento dei rapporti deficit/Pil all’ 11% e debito/Pil al 159%. Il 40% delle famiglie italiane, come stima la Banca d’Italia, è rimasta in media per tre mesi senza alcuna forma di reddito e una uguale percentuale non è stata in condizione di pagare l’affitto o le rate del mutuo. Nel 2019, le famiglie che avevano chiesto il reddito di cittadinanza erano all’incirca 700.000, nel 2020 sono state 1.650.000. È importante sottolineare che quando il reddito di cittadinanza diventò legge dello Stato, mancava solo in due nazioni dell’Unione, il nostro e la Grecia e che la sua applicazione, quindi, riempiva un gap sociale, oltre che economico, che andava superato.
Le criticità risiedono, invece, nella sua applicazione e negli effetti non rilevanti che ha avuto sui livelli occupazionali, dovendosi ritenere fallito il suo obiettivo di inserimento dei soggetti beneficiari nel mondo del lavoro attraverso i Centri per l’impiego e i navigator dopo un massimo di 3 offerte. In questa ottica, il reddito di cittadinanza entrava, di fatto e di diritto, a far parte delle politiche attive del lavoro, oltrepassando i confini di solo provvedimento di contrasto alla povertà. La Corte dei Conti, però, ha rilevato che soltanto il 2% della platea dei suoi fruitori ha trovato occupazione, mentre non poche risorse si stanno cercando di recuperare per le numerose truffe perpetrate ai danni dello Stato. Le politiche attive del lavoro, inoltre, hanno lo scopo di fare incontrare offerta e domanda occupazionale non solo a livello quantitativo ma, e soprattutto, a livello qualitativo. Un’indagine di Confindustria, precedente al Covid-19, mostra che su 100 richieste di posti di lavoro se ne soddisfano solo 60, perché c’è una asimmetria rispetto alle skills necessarie. Il reddito di cittadinanza, perciò, dovrebbe andare nella direzione di formare nuove professionalità in relazione a nuova occupabilità, obiettivo raggiungibile ove si consideri che il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede 6 miliardi per le politiche attive del lavoro, di cui 600 milioni per potenziare i Centri per l’impiego. Si tratta, in conclusione, di indirizzare la formazione verso i settori dove si prevede il maggiore e più utile utilizzo delle risorse umane, quali la transizione ecologica e digitale, la mobilità sostenibile e le altre non poche possibilità di lavoro che saranno create dal Recovery plan. Ciò che è necessario, però, è non sprecare risorse, anche in considerazione del monitoraggio dell’Unione europea sul loro utilizzo e della recente istituzione della Procura europea presieduta dalla giurista rumena Laura Kovesi, che ha il compito di controllare per ogni nazione la liceità della spesa dei 750 miliardi del Recovery fund.
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