La governance del PNRR e il governo dell’Italia
9 giugno 2021
Non potevano mancare le critiche. Il 31 maggio scorso è stato pubblicato il Decreto-Legge n. 77, relativo alla “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza (PNRR)”, in cui si afferma la centralità del premier nel governo di quest’ultimo. Di qui, le critiche (“Mario Draghi sta acquisendo troppo potere”). In realtà, il Decreto-Legge risponde ad una necessità sistemica, mettere il Paese nella condizione di definire e implementare un Piano di dimensioni storiche (complessivamente, 240 miliardi di euro da utilizzare entro i prossimi sei anni). Non si può governare un processo di queste dimensioni senza una tecnologia decisionale adeguata. Vediamo come stanno le cose.
Il Decreto-Legge definisce una struttura decisionale basata su una chiara assegnazione dei poteri e delle responsabilità. Poiché il successo del PNRR costituisce un interesse nazionale, spetta necessariamente a Mario Draghi, in quanto premier (appunto, primus super pares) della coalizione di governo, garantirne la coerenza. All’interno della Presidenza del Consiglio è istituita una Cabina di regia, con un ruolo di indirizzo politico e funzionante a geometria variabile, composta dal premier (che la preside su base permanente) e dai ministri di volta in volta competenti sulle specifiche politiche pubbliche in questione. La Cabina di regia è supportata da una Segreteria tecnica, il cui compito è preparare le decisioni e seguirne l’implementazione. Il premier è dotato di poteri sostitutivi nel caso l’una o l’altra unità amministrativa, coinvolte nella realizzazione del PNRR, non rispettino i tempi previsti o non perseguano gli obiettivi stabiliti. Il premier dispone anche del potere di superare il dissenso di un’unità amministrativa attraverso una procedura accelerata che, dopo cinque giorni, consente di sottoporre la disputa alla decisione del Consiglio dei ministri (l’organo della responsabilità politica), così neutralizzando i poteri di veto. Inoltre, è istituito un Tavolo consultivo di partenariato con le forze economiche e sociali, con una finalità consensuale (condividere le scelte) e non consociativa (preservare gli interessi costituiti). Ogni sei mesi, la Presidenza del Consiglio è tenuta a trasmettere al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione del PNRR, oltre ad informare periodicamente la Conferenza delle Regioni. Se il premier dispone dei poteri di indirizzo, impulso e coordinamento del PNRR (poteri che, più in generale, sono già celebrati dalla nostra Costituzione, Art. 95), spetta poi al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), e al Dipartimento della Ragioneria Generale collocato al suo interno, gestire finanziariamente il PNRR. Presso il MEF è istituito un Servizio Centrale per il PNRR che costituisce il punto di riferimento nazionale per l’attuazione di quest’ultimo. Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, è riconosciuto come l’effettivo vicepremier, l’interlocutore della Commissione europea, la cui influenza è irrobustita dalla sua partecipazione al Consiglio dei ministri economici e finanziari (ECOFIN), l’organo che condividerà con la Commissione europea il giudizio sull’adeguatezza implementativa dei vari Piani nazionali di rilancio e resilienza.
Troppo potere a Mario Draghi? In realtà, il Decreto-Legge prevede un’organizzazione della governance del PNRR simile a quella adottata da altri Paesi, a cominciare dalla Francia. Ma, soprattutto, esso è costretto ad ovviare ad un ritardo del nostro Paese nel rafforzamento delle sue strutture di governo (rafforzamento che pure era stato avviato dalla importante Legge n. 400 del 1988), per adeguarle alle logiche del processo di integrazione sovranazionale. A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, infatti, l’Unione europea ha affidato la governance di politiche strategiche (a cominciare da quella economica e fiscale dell’Eurozona) alle istituzioni intergovernative (del Consiglio europeo dei capi di governo e del Consiglio dei ministri nazionali). Che ci piaccia o meno, la governance intergovernativa ha favorito i Paesi dotati di governi stabili e coerenti, oltre che guidati da un premier riconosciuto, mentre ha penalizzato i Paesi (come il nostro) privi di simili governi. La pandemia ha ulteriormente mostrato come l’efficienza di un governo costituisca la condizione necessaria (seppure non sufficiente) per l’efficacia delle sue politiche. Eppure, la politica italiana è divisa tra i sostenitori di due modelli di governo, entrambi inefficienti oltre che illiberali. Da un lato, c’è chi è nostalgico del governo consociativo dei partiti, in cui i capi-bastone (gli oligarchi) decidevano fuori dal governo (attraverso transazioni personali), lasciando poi al governo il compito di formalizzare quelle scelte. Il risultato è conosciuto, svuotamento dell’istituzione-governo e irresponsabilità dei decisori (ad esempio, nei confronti della spesa pubblica). Dall’altro lato, c’è chi è affascinato dal governo del capo carismatico, in cui il leader riceve la sua legittimazione esclusivamente dal “popolo”. Il risultato è intuibile, sostituzione dell’istituzione-governo con il suo capo, come nei regimi autoritari. Una moderna democrazia liberale si governa invece attraverso le istituzioni (e non attraverso relazioni personali o carismatiche), istituzioni che debbono rendere possibile la decisione e il suo controllo.
Insomma, se il PNRR potrà aiutare l’Italia a divenire un Paese più moderno ed inclusivo, la governance del PNRR dovrà aiutarla a divenire una democrazia più efficiente e responsabile. Tra il “governo di tutti” e il “governo di uno solo” c’è un’ampia strada da percorrere.
Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.
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