Idee semplici per un ordinamento giudiziario che guarda avanti
12 giugno 2021
Di idee semplici nella riforma della giustizia che è ad oggi sul tavolo della Ministra Cartabia e che riflette il percorso di lavoro scientifico e l’integrazione delle voci – plurali – di cui la Commissione Luciani, nominata per elaborare proposte a partire dal ddl cosiddetto Bonafede, era composta ve ne sono due. Tutte e due di metodo, pensate e scelte per durare.
La prima riguarda il rapporto che le norme hanno con le azioni individuali, nel nostro caso, dei consiglieri del CSM, degli elettori passivi ed attivi, dei capi ufficio e dei magistrati aspiranti direttivi così come dei magistrati che passano dal circuito delle istituzioni terze (ossia di garanzia e imparzialità) a quelle elettorali-rappresentative (la politica, per intenderci). Prendendo sul serio quello che le ricerche ci dicono e le evidenze comparate sappiamo che le norme per quanto cogenti e ben progettate non possono determinare i comportamenti e neanche le decisioni che in quei comportamenti si riflettono. Certo, le norme possono molto. Ma non possono tutto. Dunque, prendiamo atto che esiste un problema delle “correnti”, che forse più propriamente dovremmo considerare come problema di organizzazione di forze associative e redistribuzione fortemente asimmetrica del potere di influenza a favore di alcuni attori che in quelle associazioni svolgono un ruolo troppo dominante – con le derive patologiche e di sovversione delle garanzie che conosciamo. La scelta di quali strumenti adottare per risolvere o meglio contenere questo problema è stata fatta partendo dal presupposto che la norma – in questo caso, elettorale – debba svincolare il più possibile l’elettorato attivo e quello passivo dall’influenza potenzialmente riduttiva delle correnti. Anche a questo fine, e proprio per segnare un punto di rottura fra il prima e il dopo riforma, si individua una regola che è quella di prevedere – anzi incoraggiare – le candidature individuali (il numero delle firme necessarie per la cui presentazione è stato ridotto, mentre le elezioni si terranno in collegi che non saranno territorialmente né troppo ampi – come sarebbe il caso di un unico collegio nazionale – né troppo circoscritti. Le correnti cattureranno anche quelle candidature, si dirà. Certo, è noto che non esiste un sistema elettorale in grado di eliminare il ruolo giocato da variabili comportamentali o strategiche. Ma i sistemi elettorali le strategie le fanno cambiare e le orientano. La proposta fatta orienta in modo tale da incentivare scelte tese a promuovere una qualità istituzionale di lungo periodo. Il voto singolo trasferibile, ossia il dispositivo che prevede che le preferenze non siano perdute nel computo che associa voti a candidati, unito all’obbligo – si badi, non l’opzione – di esprimere un numero minimo preferenze che includa anche il bilanciamento di genere, costruisce un set di incentivi per l’elettorato attivo affinché esprima le preferenze – tutte – anche quelle che non sono allineate con l’allineamento correntizio.
Questo ragionamento vale anche per le proposte di organizzazione interna al CSM. Anche qui, si tratta di affrontare l’annosa ed assai mediatizzata questione della Commissione Quinta – di cui si è molto criticato l’agire orientato verso nomine a pacchetto e il rischio di nomine eterodirette – e, quindi, la modalità di composizione dei posti in commissione. La proposta fatta è chiara: si tratta della scelta di permettere, anzi mettere in capo alla Presidenza del CSM l’istruttoria e la raccolta delle preferenze dei consiglieri – individuali – di partecipazione ad una o ad un’altra commissione. Tale opzione sancisce una discontinuità con la prassi di accordi intra-correntizi e inter-correntizi. Le correnti potranno sempre catturare anche i processi decisionali? Certamente molto meno di quanto non possa accadere in qualsiasi altra opzione compatibile con la Costituzione. Inoltre, proprio la ratio nascendi delle candidature e la ratio decidendi delle stesse dovrebbe indurre in modo progressivo un allargamento del pluralismo anche intra-correntizio.
Veniamo alla seconda idea semplice. Essa riposa sul presupposto secondo il quale ogni forma normativa ha la sua funzione opportuna e propria e non è davvero il caso – non per ragioni di estetica di drafting legislativo, ma per ragioni di razionalità empirica ossia di realismo scientifico – di assegnare ad una norma un compito che non è il suo, anche perché si finirebbe per avere un pessimo risultato. Dunque, le proposte distinguono nettamente fra sanzioni disciplinari – che prevedono anche un’estinzione degli illeciti minori, se si trova che vi sia un recupero da parte del magistrato, e una soluzione delle criticità comportamentali registrate – e “sanzioni” professionali, che si esplicitano in valutazioni graduate, secondo una scala che prevede anche la messa in evidenza di cosa non va e cosa deve essere migliorato. Analogo ragionamento si applica alla distinzione delle norme che entrano in delega e le norme che invece attengono all’esercizio dell’autonomia del CSM. Per intenderci si è scelto di non fare di alcuni indicatori generali e specifici un contenuto della delega, per non cadere nell’errore secondo cui un’architettura meravigliosamente disegnata di indicatori finirebbe per generare un’infinitamente accresciuta valanga di ricorsi amministrativi, derivati proprio dal fatto che l’indicatore sancisce un target ‘normante’ a sua volta frutto di una scelta. Quand’anche lo esprimessimo in numero non avremmo di certo eliminato la scelta che sta a monte.
Infine, a questi due presupposti semplici si uniscono due slanci altrettanto semplici e credo molto coraggiosi. Il primo è quello di consolidare e portare a compimento il percorso non facile ma molto benvenuto dell’inserimento della Scuola superiore della magistratura nell’ordinamento italiano. Una scelta che afferma anche la titolarità della Scuola nella creazione di una cultura forte del ruolo della magistratura, cultura di cui il paese ha particolarmente bisogno. Il secondo è quello di prevedere che vi siano dei dispositivi chiari che regolano il fuori ruolo, mai sino ad ora regolato in modo sistematico, e le cosiddette porte girevoli fra magistratura e politica, porte che sono bloccate con un buffer di raffreddamento che prevede un rientro fuori da ruoli giudicanti monocratici, da ruoli direttivi e di responsabilità GIP o GUP, ossia in materia di garanzie della tutela delle libertà dove la terzietà oggettiva e percepita deve essere assicurata.
Tutto questo incardinato in un contesto i cui parametri sono fissati in modo del tutto esogeno non solo rispetto allo spettro delle scelte della Commissione ma anche, diciamolo apertamente, della politica giudiziaria. Il primo parametro è quello della Costituzione. Quel parametro è stato preso non come un elemento rispetto a cui compiere adempimenti di forma, ma come una fonte di ispirazione per credere ed andare in modo netto verso la riqualificazione della fiducia fra magistratura e cittadino, un tassello vitale di una democrazia di qualità, quella che vogliamo tutti. Il secondo parametro è quello del PNRR, richiamato nella nomina della Ministra Cartabia e presente in via implicita in diversi punti soprattutto quelli che affrontano le questioni organizzative.
Adesso la parola spetta alla politica, ma nel frattempo le istituzioni accademiche, i media e il dibattito culturale possono fare molto per coadiuvare un percorso dove il fattore umano e le persone saranno in realtà determinanti nella realizzazione di quel cambiamento che la Presidente von der Leyen richiamava. Era il luglio 2020. È passato un anno. È tempo di fare.
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