L’Europa ha bisogno di nuove regole, non solo fiscali
12 giugno 2021
A settembre, dopo le elezioni tedesche, entrerà nel vivo il dibattito europeo sulla riforma delle regole economiche. Non è la prima riforma delle regole e l’esperienza non è confortante. Un modo di descrivere lo spirito delle riforme passate è “una mentalità da specchietto retrovisore, avvolta dentro una sindrome della nazione di piccole dimensioni”.
Lo specchietto retrovisore è abbastanza evidente: i paesi che ora fanno parte dell’euro vissero il culmine dell’inflazione attorno al 1981, cioè dieci anni prima che il Trattato di Maastricht fosse dedicato ad assicurare la stabilità dei prezzi attraverso la disciplina dei mercati finanziari. La prima riforma del coordinamento fiscale avvenne anch’essa con dieci anni di ritardo rispetto alla liberalizzazione dei movimenti di capitale e 15 anni dopo l’aumento del costo reale dei debiti pubblici. Solo nel 2005 la riforma della governance tenne conto delle riforme strutturali, ma anche in questo caso era passato circa un decennio da quando globalizzazione e nuove tecnologie avevano imposto, con le buone o le cattive, flessibilità del capitale e del lavoro.
Ci sono almeno due regolarità: la prima è che non solo le riforme arrivano tardi, ma poi durano troppo. Quando la crisi globale scoppiò nel 2008, furono applicate regole del decennio precedente: pressione dei mercati finanziari sulle scelte politiche (lo spread); prevalenza della stabilità monetaria sugli altri obiettivi di politica economica; riforme strutturali in un contesto di austerità fiscale. Il risultato non è stato buono: troppe sofferenze e crescita stagnante.
Dopo la crisi dell’euro, si sono introdotte, di soppiatto, forme di flessibilità che hanno eroso la credibilità del sistema di governance. C’è voluta una pandemia globale per rovesciare le regole, adottare emissioni comuni di debito e sostegni fiscali per uscire dalla recessione. Ma essendo la pandemia eccezionale è incerto che le nuove pratiche possano rimanere dopo di essa.
La seconda regolarità è che sono gli eventi – non la battaglia tra le idee, o meglio tra i pregiudizi – a determinare le regole. E molto spesso si tratta di eventi esogeni: l’inflazione da shock petroliferi; il ruolo dei mercati dei capitali nelle economie anglosassoni; le nuove tecnologie, la globalizzazione e ora perfino una pandemia. Eventi non solo esogeni, ma anche imprevisti da paesi che vivono dentro una sindrome svizzera: piccoli paesi che lasciano agli altri la soluzione dei problemi globali.
C’è il rischio che il dibattito di settembre cominci allo stesso modo occupandosi soprattutto di “policy mix”, cioè di quanto debito pubblico sia accettabile in relazione alla “normalizzazione” della politica monetaria. Certo ogni riforma ben fatta deve basarsi su dati empirici, ma questi ovviamente riflettono una realtà passata. Dopo la pandemia, per esempio, famiglie e imprese considereranno il futuro più carico di rischi di quanto facessero prima e questo condizionerà la propensione al risparmio.
La lezione è che la governance europea dovrà attrezzarsi ad affrontare eventi esterni e inattesi, per esempio disponendo di fondi d’emergenza a uso discrezionale. Sono i fondi che non erano disponibili quando si trattava di acquistare rapidamente i vaccini. La seconda lezione è la disponibilità di capacità analitiche per prevedere le necessità future. Poteri discrezionali e pensiero strategico non competono però a burocrati. Tocca alla politica europea fissare l’agenda ed esserne responsabile. In altre parole, nuove regole non saranno utili senza nuovi poteri e responsabilità.
La capacità analitica deve far emergere anche trend che superano la durata dei cicli politici, a cominciare da quelli demografici. L’invecchiamento della popolazione europea cambierà anch’esso la propensione a risparmiare, l’orientamento delle politiche monetarie e la sostenibilità dei debiti. Ma è ovvio che la risposta ai trend demografici – migrazione, riforma del welfare e del lavoro, politiche per la famiglia – ha poco a che fare con la sola politica economica.
Per quanto riguarda la natura prevalentemente esogena degli shock all’economia europea, l’Ue deve riflettere sul proprio ruolo nel mondo. Rimarrà dipendente da altri per tecnologia ed energia? Sarà in grado di salvaguardare i diritti individuali (tra cui la privacy) e sociali europei? Dovrà diventare autonoma nella difesa dei confini? Può applicare più rigore alle norme ambientali, sociali o finanziarie, senza ridurre la capacità di innovare delle imprese e la libertà di scelta delle famiglie?
Le regole fiscali sono solo un fattore di queste riflessioni più ampie. L’eccesso di risparmio europeo, per esempio, finora è stato esportato favorendo la crescita di altri paesi, anziché finanziare le priorità politiche europee, come la protezione dell’ambiente, l’avanzamento tecnologico e anche la convergenza tra le economie dei singoli stati. La risposta alla pandemia ha portato nuovi strumenti, come i trasferimenti gratuiti ai paesi deboli, lo sviluppo di “risorse proprie” europee, l’emissione di debito comune, quasi sempre determinati da decisioni comunitarie. Si tratta di scelte “intertemporali” – cioè sacrifici oggi per benefici domani, o viceversa – e in questo senso tipicamente politiche.
In ragione di ciò, vale la pena chiedersi se il livello istituzionale che dovrà disegnare le nuove regole possa davvero essere quello dei ministri delle Finanze. Definire il ruolo dell’Europa nel mondo, affrontare la sfida demografica, o disporre di fondi discrezionali per le emergenze, rappresentano tutte funzioni e scelte politiche che non possono essere assoggettate solamente a calcoli finanziari di costo-beneficio e di breve termine. Per l’Europa è il tempo di nuove regole costituzionali. Mettere in primo piano vincoli finanziari e orizzonti brevi potrebbe rappresentare un errore di portata storica.
Questo articolo è precedentemente apparso su La Repubblica. Riprodotto per gentile concessione.
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