Quale mondo dopo la pandemia?

16 giugno 2021
Editoriale Europe
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Hanno un’importanza speciale, l’incontro che si è tenuto in Cornovaglia in questi giorni (tra i leader delle sette principali democrazie di mercato, il G7) e l’incontro che si terrà a Bruxelles a partire da domani (tra i leader della NATO e poi degli Stati Uniti e dell’Unione europea, Ue). Poiché la pandemia ha le caratteristiche di una guerra, occorre delineare le nuove strutture del mondo post-pandemico. Nel 2008, si trattava di ritornare al mondo precedente la crisi finanziaria, nel 2021 si tratta di ridefinire il mondo che emergerà dalla pandemia. Quali sono, per l’alleanza transatlantica, le sfide economiche e politiche da affrontare?

Cominciamo dalle sfide economiche. Nell’ultimo numero di Foreign Affairs, lo storico economico Harold James ha argomentato che le crisi internazionali, generate dai processi di apertura dei mercati e delle società, non hanno necessariamente condotto alle vecchie chiusure. Così avverrà anche questa volta, poiché nessuno, tra i principali attori internazionali, ha interesse ad andare verso sistemi chiusi che non garantiscono il benessere e la sicurezza. Potrà cambiare, però, il perno su cui costruire la nuova apertura. Dopo il 2008, si affermò il G20, il Forum delle venti principali economie mondiali, dotate di differenti regimi politici interni. Il G20 è importante anche oggi, tuttavia la contrapposizione tra gli Stati Uniti e la Cina ne ha depotenziato il ruolo. Dopo il 2021, sembra invece riemergere la centralità del G7, l’organizzazione delle sette più importanti democrazie di mercato. L’arrivo di Joe Biden non ha modificato l’approccio antagonistico nei confronti della Cina inaugurato da Trump, ma ha modificato la strategia per gestirlo. Per Biden, quell’approccio va gestito insieme agli alleati democratici, per Trump andava gestito senza questi ultimi.

L’approccio cooperativo di Biden ha già prodotto importanti risultati. Pochi giorni fa, in una riunione del G7, è stato concordato di proporre l’adozione, attraverso un accordo internazionale, di una minimum global tax del 15 per cento nei confronti delle grandi imprese multinazionali, in particolare dell’alta tecnologia. Tuttavia, in molti altri settori, la divergenza di interessi tra americani ed europei rimane intatta. La guerra commerciale sulle tariffe (per l’acciaio e l’alluminio) è stata solamente sospesa, anche se gli americani continuano a contrastare il funzionamento dell’Organizzazione mondiale dei commerci (OMC) posticipando la nomina dei giudici del suo Appellate Body incaricato di risolvere le dispute. Continua più che più mai la divisione sulla protezione dei brevetti dei vaccini, che gli americani vorrebbero eliminare e gli europei (in particolare la Germania) preservare. Il commercio con la Cina è fonte di divisione profonda tra europei e americani, con i primi favorevoli ad estenderlo e i secondi a condizionarlo. Gli europei hanno deciso di introdurre, già a luglio, un dazio sui prodotti delle imprese ad alto uso di carbone, contro l’opposizione degli americani. Il gasdotto Nord Stream 2, voluto dalla Germania per portare il gas in Europa direttamente dalla Russia attraverso il mar Baltico, è contrastato dagli americani (oltre che da altri europei) perché renderebbe il continente dipendente sul piano energetico. Si tratta di divergenze difficili da risolvere perché hanno basi materiali nella differente organizzazione dei sistemi economici delle due sponde dell’Atlantico.

Vediamo le sfide politiche. Anche qui il tempo è nuvoloso. Il ruolo della NATO è indefinito, così come imprecisato è l’impegno degli europei a garantire la propria sicurezza. In piena era trumpiana, il 7 novembre 2019, in una intervista all’Economist, il presidente francese Emmanuel Macron affermò che la NATO era in una condizione di brain death, di morte cerebrale. Un giudizio severo, ma realistico. Oggi, la NATO si sta ritirando dall’Afghanistan, dopo un intervento di 20 anni che ha avuto costi enormi e raggiunto risultati minimi. Anche per gli Stati Uniti di Biden, il rafforzamento della NATO non è la priorità (in quanto l’avversario strategico è la Cina, non la Russia). Eppure, i principali Paesi europei continuano a disattendere l’impegno preso a portare la loro spesa militare al 2 per cento del relativo PIL nazionale, quasi non avessero ancora metabolizzato la ridefinizione delle strategie americane. L’Ue ha aperto una discussione sulla sua “autonomia strategica”, il suo alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha detto che “è tempo di ricorrere al linguaggio e ai mezzi dell’hard power”, ma poi non riesce a concordare un comunicato sul conflitto tra Israele e Hamas, a prendere iniziative efficaci contro la pirateria aerea del dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnka, a contrastare la politica di Putin di avvelenare i propri avversari interni. Nonostante la maggioranza dei cittadini europei (secondo l’indagine dell’European Council on Foreign Relations del 9 giugno scorso) sia favorevole a dotare l’Ue di una sovranità sul piano della sicurezza, le inerzie europee continuano ad ostacolare il ribilanciamento di responsabilità tra le due sponde dell’Atlantico.

Insomma, la pandemia ha rafforzato processi già in corso, sollecitando però nuove risposte. Non sono finiti né la globalizzazione economica né l’ordine liberale internazionale, ma il loro mancato governo. Ha scritto Fareed Zakaria, nel suo “Ten Lessons for a Post-Pandemic World”, che la nuova globalizzazione e il nuovo multilateralismo richiederanno una nuova capacità politica da parte delle democrazie.  Gli incontri in Cornovaglia e a Bruxelles dovrebbero indicare le modalità per conseguirla.

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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