Le proposte della Commissione Lattanzi sulla prescrizione del reato

17 giugno 2021
Editoriale Sostiene la corte
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Il 24.5.2021 è stata presentata la Relazione finale della Commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, Pres. emerito della Corte costituzionale, istituita con decreto del 16.3.2021 dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia, per elaborare proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari prendenti presso le corti di appello»­.

La Relazione, di oltre 70 pagine, è suddivisa in tre sezioni, dedicate: 1) al processo penale; 2) alla prescrizione del reato e all’irragionevole durata del processo; 3) al sistema sanzionatorio e alla giustizia riparativa. La prescrizione del reato viene esaminata in stretta connessione con la questione della durata del processo perché, ad avviso della Commissione, si tratta di due problemi distinti, che tuttavia si alimentano reciprocamente: se si trova una soluzione che consenta una effettiva riduzione dei tempi processuali, in ossequio al principio costituzionale della ragionevole durata (art. 111, co. 2), allora la prescrizione cessa di rappresentare un problema (p. 51).

Come noto, la prescrizione del reato è un istituto di diritto penale sostanziale che determina l’estinzione del reato per l’infruttuoso decorso del tempo. Uno degli aspetti più controversi della disciplina dell’istituto è il regime di sospensione sine die previsto dall’art. 159, co. 2, c.p., come modificato dalla l. 3/2019, in forza del quale il decorso del termine prescrizionale si blocca definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna. Conseguentemente l’imputato è esposto al rischio che il processo, in sede di appello e di legittimità, prosegua per una durata indefinita e potenzialmente irragionevole; rischio che si dimostra ancor più intollerabile nei confronti di chi sia stato assolto all’esito del primo grado di giudizio (p. 52).

Le proposte di modifica sono le seguenti.

L’opzione A (pp. 53-54) abroga il co. 2 dell’art. 159 c.p. e introduce due fattispecie sospensive, similmente a quanto proponeva la Commissione Fiorella nel 2013, per cui la prescrizione rimane sospesa per massimo due anni dalla sentenza di condanna di primo grado, e per massimo un anno dalla sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado. Se la pubblicazione della sentenza di secondo grado o di legittimità non interviene entro il termine biennale o annuale, la prescrizione riprende a decorrere e il periodo di sospensione intercorso è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere. Inoltre la sentenza e il decreto di condanna vengono inclusi nuovamente tra gli atti interruttivi di cui all’art. 160, co. 1, c.p.

L’opzione B (pp. 54-56) interviene su due fronti, modificando sia il codice penale che quello di rito. Essa abroga i co. 2 e 4 dell’art. 159 c.p. e aggiunge nell’art. 158 c.p. un co. 4, disponendo che la prescrizione cessa definitivamente con l’esercizio dell’azione penale, atto con cui lo Stato manifesta l’interesse a perseguire il reato. Parallelamente, nel Titolo III del Libro V c.p.p., dedicato alle condizioni di procedibilità, è inserito l’art. 344-bis (Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del processo), che fissa dei termini di fase, rispettivamente, di quattro anni per il primo grado, tre anni per l’appello e due anni per la legittimità, allo scadere dei quali la mancata definizione del giudizio determina l’improcedibilità dell’azione penale.

I suddetti termini possono essere prorogati “per giusta causa” per un massimo di sei mesi per i delitti puniti con l’ergastolo, anche per applicazione di circostanze aggravanti, e per i delitti di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., e laddove nel processo si celebri l’udienza preliminare un’ulteriore proroga di sei mesi opera ex lege. La durata massima dei processi può quindi variare dai nove agli undici anni.

Tuttavia, la rigidità dei termini che scaturisce da questa impostazione mal si concilia con i tempi richiesti per l’accertamento della responsabilità penale per una serie di reati gravi, come quelli puniti con l’ergastolo e quelli di criminalità organizzata, le cui ifficoltà probatorie rendono la lunga durata del processo una conseguenza tendenzialmente ineliminabile. La Commissione prende atto di questo aspetto problematico e valuta la possibilità di escludere tali categorie di reati dal suddetto schema di termini fissi (p. 56).

Con l’opzione B si abbandona (finalmente) l’idea che la prescrizione del reato debba concorrere ad assicurare la ragionevole durata del processo, ma essa non tiene conto di un rischio, ovverosia che se l’azione penale venisse esercitata in prossimità della maturazione del termine prescrizionale, l’imputato potrebbe rimanere assoggettato al potere pubblico per altri nove-undici anni. Un esito da scongiurare, giacché il diritto del singolo “ad essere lasciato in pace”, che costituisce uno dei cardini dell’istituto in esame, subirebbe un (grave) pregiudizio. Per evitare un simile scenario, la Commissione propone che l’esercizio dell’azione penale diventi l’unico atto interruttivo del corso della prescrizione, che continuerebbe a decorrere anche una volta avviato il processo (per un tempo massimo pari alla metà in più del termine di prescrizione, v. infra) e potrebbe maturare prima della scadenza del termine di fase (p. 56). Così, nel caso di un delitto che si prescrive in sei anni (fino a un massimo di nove anni per effetto dell’esercizio dell’azione penale e del conseguente aumento della metà del termine prescrizionale), se l’azione penale è esercitata dopo cinque anni e sei mesi dalla consumazione del reato, il processo non potrà durare più di tre anni e sei mesi.

Un’ultima proposta di riforma riguarda l’art. 161, co. 2, c.p., che stabilisce che il prolungamento del tempo di prescrizione per effetto di atti interruttivi non può, salvo le eccezioni ivi previste, superare di un quarto il tempo necessario a prescrivere. Recependo i rilievi critici mossi da gran parte della dottrina, la Commissione propone di ampliare la misura dell’aumento da un quarto alla metà (p. 57).

 

 

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L'autore

Chiara Gentile è Dottoranda di ricerca in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali presso l’Università degli Studi di Ferrara. Collaboratrice di cattedra in Diritto costituzionale presso l’Università Luiss.


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