Cosa dobbiamo sapere sulla riforma della giustizia civile

19 giugno 2021
Editoriale Open Society
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Lo scorso 25 maggio, la commissione ministeriale presieduta dal prof. Francesco P. Luiso ha presentato alla ministra Cartabia un elaborato in tema di processo civile e strumenti alternativi (o “complementari”) di risoluzione del contenzioso civile. Si tratta di un testo di alto livello qualitativo, che si occupa di questioni anche ordinamentali. Il presente scritto vuole riferire, “a prima lettura”, soltanto degli aspetti principali.

La commissione ha anzitutto preso atto che il numero dei magistrati togati addetti al civile (un solo magistrato ogni ventimila cittadini) è troppo esiguo. Sebbene il testo non comprenda la proposta (estranea, d’altra parte, allo specifico mandato ricevuto dalla ministra), sembra inevitabile provvedere a un reclutamento straordinario. Il tema è stato tabù per molto tempo, per ragioni soprattutto interne agli equilibri della magistratura associata, ma ora da più parti si parla con molta insistenza della necessità di aumentare il numero dei magistrati addetti al civile.

La commissione Luiso, presupponendo l’attuale situazione degli organici, formula proposte correttive: (a) il rilancio e il riordino degli istituti di risoluzione alternativa, ivi compreso l’arbitrato; (b) l’aumento della competenza del giudice di pace, utilizzando la leva del valore (da molti contestata, in quanto criterio neutro) o della materia.

Entrambi gli argomenti meritano attenzione critica. Gli strumenti c.d. alternativi (o “complementari”) sono tali rispetto alla giurisdizione, eppure tra loro diversissimi: la mediazione e la conciliazione presuppongono una logica collaborativa e pacificatrice, laddove l’arbitrato presuppone un accordo delle parti soltanto sulla deroga alla giurisdizione: il lodo sarà poi soluzione eteronima in tutto parificabile alla sentenza (art. 824-bis c.p.c.).

A mio avviso, il ruolo di tutti questi strumenti rischia di essere falsato dall’unico obiettivo prefissato, che è quello di liberare i ruoli della magistratura togata. Come se si dicesse al cittadino: giacché non puoi pretendere che il tribunale conosca di tutte le liti, fai in modo di trasferirne una consistente quota in un contesto diverso (in tale logica, i vari contesti si equivalgono). In questa prospettiva, una serie di norme costituzionali viene strisciantemente violata (gli artt. 24, 25, 102 Cost. in primis), annegata la specificità dei vari strumenti alternativi, coartata la diffusa cultura che è dietro l’aumento costante del contenzioso. La diffusione di tali strumenti presuppone infatti una riconversione culturale: il giudice conciliatore è stato titolare anche della conciliazione non contenziosa (art. 322 c.p.c.), istituto che tuttavia nel nostro sistema non ha mai preso piede perché, nel sentimento comune, la risoluzione di un conflitto chiama l’intervento di un giudice terzo titolare di poteri “autoritativi” (che cioè derivano dall’autorità statuale e non dal consenso dei litiganti). Si parla infatti della necessità di diffondere una diversa cultura dei conflitti, ma ciò non avviene certo per factum principis. D’altra parte, le disfunzioni della nostra giustizia civile non favoriscono la diffusione degli strumenti alternativi, perché la parte abituata alla resistenza di mala fede sa che l’attuale sistema la premia.

Sul giudice di pace, c’è da dire che, dalla legge istituiva del 1991 (che lo ha fatto succedere al conciliatore), molte cose sono cambiate. Tale magistratura è ora giusperita e professionalizzata, sebbene resti “onoraria”. Nella scelta dell’ampliamento delle competenze, meglio sarebbe far capo a specifiche competenze per materia, onde evitare la creazione di un giudice minore generalista che avrebbe, magari, anche il problema dell’applicazione di diversi riti speciali. Non va dimenticata la direttiva che viene dal testo costituzionale: l’art. 106, comma 2, Cost., ammette la nomina di magistrati onorari «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli». Ciò significa dare per scontato che il giudice onorario (utilizzato, di norma, come giudice di primo grado: il monito viene anche dalla recente Corte cost. n. 41/2021 sugli “aggregati” nelle Corti di appello) non debba occuparsi di quel contenzioso particolarmente delicato e qualificato, tradizionalmente di competenza del tribunale. Il costituente aveva dinanzi agli occhi una situazione profondamente diversa da quella attuale: sin dalla fine dell’ottocento, e per i primi decenni del ’900, il giudice conciliatore si era trovato a conoscere di una parte percentualmente molto elevata del complessivo contenzioso in materia civile (con punte che arrivavano ad oltre l’80%), mentre i giudici professionali (pretore e tribunale) si occupavano del residuo contenzioso, che evidentemente era tutt’altro che bagatellare sebbene risultasse legato ad un’economia ancora di tipo agricolo.

Il pensiero del costituente va dunque attualizzato e reinterpretato, perché la situazione di fatto e istituzionale è, negli anni, profondamente mutata. Occorre chiedersi quale valore possa conservare oggi il riferimento alle competenze dei giudici “singoli”. A nostro avviso, attualizzare tale riferimento significa leggerlo in rapporto alla c.d. giustizia minore. Non è interpretazione di tipo conservatore: va anzi preso atto che nel principio costituzionale vi è un germe di evoluzione, non essendosi inteso identificare anche per il futuro la giustizia onoraria in ciò che essa era all’epoca (altrimenti la Costituzione si sarebbe espressa in modo diverso, inibendo al giudice onorario di “invadere” la quota di giurisdizione riservata ai giudici professionali) ma soltanto individuare un limite verso l’alto: quello coincidente con la competenza del giudice di primo grado di rango più elevato, il tribunale. Sebbene non sia semplice (ora come allora) definire con ragionevole approssimazione cosa debba intendersi per “giustizia minore” (è un qualcosa destinato anche a cambiare nel tempo), va preso atto che il costituente ha preferito fare oggettivo riferimento a quella che era, all’epoca, la competenza del più importante ufficio giudiziario di primo grado.

Brutte notizie per il rito di cognizione ordinaria, sempre più condizionato dal principio di eventualità e dunque, a maggior ragione, possibile terreno di errori di parte non recuperabili. Di lato tutte le dotte considerazioni tecniche (abbiamo già notato che il testo è tecnicamente eccellente), noto un paradosso: da un lato, si intende favorire una cultura pacificatrice mediante la diffusione degli strumenti alternativi fondati sulla collaborazione e sul consenso; dall’altro lato, il rito ordinario diviene sempre più un luogo di confronto aspro tra giudice e difensore, con possibili code di responsabilità professionale a carico di quest’ultimo. Questo apparente contrasto si spiega soltanto nella logica della promozione di tutto ciò che è alternativo al giudice e del conseguente respingimento del cittadino dalla giurisdizione: tema che, come abbiamo detto, pone delicate questioni di costituzionalità. Gli adattamenti tecnici proposti (atti introduttivi, prima udienza, memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c.) perseguono una logica che presuppone però un ruolo attivo del giudice: perché il processo può partire bene soltanto se alla prima udienza il giudice giunga preparato e con l’intenzione di adottare decisioni (e non meri rinvii). Si tratta di un obiettivo implicito (perché non vi sono strumenti, di lato quelli disciplinari, in grado di imporre al giudice comportamenti e adempimenti), mentre assai esplicite sono le sanzioni a carico delle parti: sanzioni in grado, abbiamo detto, di esaltare il ruolo contenzioso e conflittuale (non già collaborativo e pacificatore) del giudizio che si svolge dinanzi al giudice togato.

Le proposte in tema di impugnazioni risentono di questa impostazione. Vi è consapevolezza del fatto che le Corti di appello vanno sgravate (l’ampliamento della competenza del giudice di pace serve anche a questo), ma anche del fatto che le riforme più recenti – il riferimento è soprattutto a quelle “a sorpresa” dell’estate 2012 – non hanno migliorato la trattazione degli appelli. Del resto, il giudice di appello non vive isolato dal contesto: la proliferazione delle impugnazioni si spiega con il basso livello delle decisioni di primo grado le quali, per altro evidente paradosso, vengono somministrate dai giudici meno esperti e capaci (spesso onorari, anche in tribunale); laddove la centralità del processo di primo grado richiederebbe l’intervento di un giudice autorevole ed esperto, in grado di adottare soluzioni (anche conciliative) con un alto grado di accettabilità per le parti.

Un discorso a sé merita il giudizio di legittimità, oggetto di continui e disordinati interventi. La proposta attuale è quella di importare un istituto dell’esperienza francese, la saisi pour avis: il giudice di merito, che debba affrontare una questione di diritto nuova e potenzialmente rilevante per filoni di contenzioso, può chiedere alla Corte di pronunciarsi preliminarmente su di essa (rinvio pregiudiziale, simile a quello dell’art. 267 TFUE). La proposta tende a esaltare la tendenza attuale della Cassazione a proporsi quale giudice della nomofilachia, chiamato a pronunciarsi anche prescindendo dalla definizione di un ricorso (cfr. l’art. 363 c.p.c.): un dialogo cioè non con il giudizio e un caso concreto, bensì direttamente con la norma. Ma una simile funzione “astratta” non ha precisi riferimenti nei nostri testi istituzionali, e del resto i giudici di merito non sono obbligati a conformarsi ai principi di diritto affermati dalla Corte (infatti la proposta attuale prevede il vincolo soltanto per il giudice di merito che abbia richiesto il rinvio pregiudiziale).

Se si guarda all’esperienza francese (basta consultare il sito della Corte, ci si rende tuttavia conto che le interrogazioni della Corte, tra settore civile e settore penale, sono una decina all’anno; ma soprattutto si nota che la Corte risponde in forma estremamente sintetica, con provvedimenti di non più di due cartelle a stampa, in un termine di massimo di tre mesi.

La nostra Cassazione, nonostante i continui inviti alla sobrietà anche dei primi presidenti, è tuttora in grado di partorire decisioni (le c.d. sentenze-trattato) di centinaia di pagine, la cui interpretazione già nasce controversa e sovente richiede successivi pronunciamenti delle sezioni unite. Sussistono tuttora gravi conflitti interni nella giurisprudenza della Corte, a volte anche in relazione alla stessa sezione. L’attesa per la definizione dei ricorsi ordinari si misura in anni, non in mesi.

Insomma, l’impressione è che le condizioni di base delle due Corti supreme siano molto diverse, e guardare oltralpe alla ricerca di nuovi compiti della nostra Corte è non altro che un grave azzardo, se si tiene conto dei carichi attuali e dei lunghi tempi di definizione dei ricorsi. Per questo dobbiamo guardare con disfavore ogni istituto che allarghi le competenze della Cassazione, che fa molta fatica ad assolvere anche quelle esistenti, per affermare come normale il caso in cui la Corte afferma un principio di diritto quando decide un ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.), quando cioè opera come giudice sia pure di legittimità (e non quale dispensatore “astratto” di principi di diritto nell’interesse della legge, coma ora avviene in base all’art. 363 c.p.c., norma riscritta nel 2006 e che forse va criticamente ripensata).

L'autore

Bruno Capponi è professore Ordinario di Diritto processuale civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Luiss


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