Sostenibilità ambientale e innovazione

21 giugno 2021
Editoriale Open Society
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Prima della pandemia da Covid-19, il cambiamento climatico, l’inquinamento e il degrado degli habitat naturali erano probabilmente divenuti – almeno in Europa – i principali rischi globali nella percezione dell’immaginario collettivo. Nella sua Enciclica del 2015, Papa Francesco ha così richiamato con il suo alto Magistero il senso di urgenza che si andava diffondendo in quegli anni: “Non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi”.[1]

Se volgiamo lo sguardo alla comunicazione mediatica ed all’immaginario collettivo, mentre alla fine degli anni Cinquanta la letteratura e la cinematografia si cimentavano con le tematiche della catastrofe nucleare,[2] nei primi anni di questo millennio i rischi associati al mutamento climatico hanno condiviso, con quelli connessi al terrorismo internazionale ed alla speculazione finanziaria, il podio nella classifica degli argomenti più frequentati dalle sceneggiature dei “disaster movie”.[3] Purtroppo, nella contrapposizione mediatica tra apocalittici ed integrati, si è talvolta perduto il senso del pragmatismo e l’invito alla ricerca di soluzioni insito nel richiamo all’urgenza del problema ambientale, preferendo una alternanza tra forme di negazionismo e millenarismo apodittico.[4]

L’irrompere del Covid-19 ha inevitabilmente polarizzato la psicologia sociale sul rischio epidemico e sanitario in generale, pur se non mancano gli autori che da tempo segnalano le relazioni profonde tra emergenza ambientale e pandemia.[5] La percezione, se non la consapevolezza, delle minaccie per l’ecosistema che riguardano le generazioni presenti e future resta tuttavia elevata, e va consolidandosi nelle opinioni pubbliche occidentali.[6] Vi sono però alcune caratteristiche dell’inquinamento e del cambiamento climatico che rendono meno evidente, ed a tratti, opaco il legame tra la percezione crescente del problema e la consapevolezza delle sue cause e possibili soluzioni.

Questo volume non intende fornire una panoramica generale sul tema “sostenibilità ambientale”, che ovviamente richiederebbe uno spazio e modalità diverse. Sugli sviluppi recenti in letteratura economica, e per uno sguardo complessivo sulla situazione, non mancano contributi autorevoli e complementari.[7] Il volume si sofferma invece su alcuni aspetti specifici in tema di sostenibilità ed innovazione tecnologica ed istituzionale.

Tra le principali difficoltà connesse alla questione ambientale, vi sono infatti quelle generate dalle esternalità tipiche delle emissioni inquinanti, con la misurabilità delle stesse e di conseguenza con i problemi di free riding e di governance su scala regionale e globale, tutti temi ben noti da tempo agli studiosi dell’azione collettiva.[8]  A rendere la questione ancor più complessa da districare in termini di politiche, vi sono lo iato temporale tra le cause verosimili di inquinamento e riscaldamento globale, e gli effetti sulla salute e sulla temperatura media; nonchè le incertezze sugli opportuni strumenti e modalità d’azione da intraprendere. Se quindi, da una parte, il tema della sostenibilità ambientale da questione per specialisti è divenuta parte del dibattito pubblico, la sua complessità e la rilevanza della sostenibilità economica e sociale dei processi e delle policy – accanto a quella ambientale – lo rendono comunque controverso.

A partire dagli anni Novanta, la comunità internazionale ha moltiplicato le occasioni di confronto sulla sostenibilità ambientale. Si sono susseguiti sia le Conferenze delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite – che quest’anno a Glasgow vedranno la ventiseiesima edizione (la cosiddetta “COP26” di cui l’Italia è co-organizzatrice) – sia gli Accordi internazionali in materia di sostenibilità, dalla Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) alle Convenzioni UNESCO per l’ambiente e biodiversità, agli Accordi sul clima dal Protocollo di Kyoto del 1997 a quello di Parigi del 2015.

Di questi ultimi, il primo (Kyoto) non ha visto l’adesione degli Stati Uniti, mentre il secondo (Parigi) ha visto il ritiro degli USA con l’Amministrazione Trump e l’annunciato rientro degli stessi con la Presidenza Biden. Nella nuova amministrazione americana, sembra prevalere il riconoscimento del progresso che l’Europa ha compiuto in termini di riduzione delle emissioni, mentre emergono preoccupazioni relative alla competitività delle industrie occidentali nelle tecnologie verdi, dove la Cina ha acquisito un vantaggio comparato.

L’Unione Europea è stata senza dubbio, da tempo e soprattutto negli ultimi anni, il principale motore internazionale dei progressi in termini di impegno regolamentare e finanziario in chiave di sostenibilità. Per quanto riguarda le emissioni, il Consiglio Europeo del 17 dicembre 2020 ha impegnato i Paesi Membri ad una riduzione del 55 percento dei gas ad effetto serra, rispetto ai livelli del 1990. Per quanto concerne lo sforzo finanziario, non solo il 37 percento almeno dei circa 750 miliardi di euro dei fondi del Next Generation EU sono destinati alle politiche di sostenibilità ambientale, ma lo stesso vale per circa un terzo dei circa 1080 miliardi del Financial Framework UE per il periodo 2021-2027. Si tratta quindi di scelte politiche forti, che per la UE seguono una linea consolidata almeno nell’ultimo ventennio, ma che si incrociano da una parte con la complessa governance globale dei processi, dall’altra parte con lo sforzo richiesto agli attori privati ovvero imprese, consumatori e risparmiatori. Un approccio pragmatico e fruttuoso alla sostenibilità, infatti, non può prescindere dalle dimensioni economiche e sociali, nonché dal tema della competività tecnologica internazionale.

Tra le molteplici sfaccettature della questione ambientale, abbiamo dunque scelto di privilegiare in questo volume del Centenario della Rivista di Politica Economica due chiavi di lettura apparentemente distanti ma complementari. La prima è quella, appunto, delle esternalità internazionali e delle interconnessioni tematiche intrinseche al problema del cambiamento climatico e delle politiche relative alla sua gestione. La seconda chiave è quella dell’innovazione e delle strategie industriali poste in essere, a livello nazionale, settoriale e microeconomico, anche a seguito delle misure regolamentari introdotte nel tempo per la mitigazione dell’emergenza ambientale, con i riflessi su produttività, performance economiche e competitività valutate anche in chiave ecologica.

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La prima sezione del volume contiene quattro saggi dedicati alla dimensione internazionale della sostenibilità ambientale ed ai suoi legami con altri aspetti della governance regionale e globale.

Apre il contributo di Rolando Fuentes, Marzio Galeotti, Alessandro Lanza e Baltasar Manzano sulle analogie e le differenze tra la crisi sanitaria del Covid-19 e la problematica del cambiamento climatico. In entrambi i casi si è in presenza di esternalità negative, ovvero di conseguenze che le attività economiche di imprese e famiglie producono al di fuori del mercato sui costi e profitti di altre imprese e famiglie, con effetti appunto non internalizzalizzati sul benessere degli agenti economici terzi. Il prezzo per queste esternalità negative o non esiste, perché appunto non vi è un mercato, oppure non rappresenta adeguatamente il valore delle esternalità stesse. Inoltre, come nel caso del cambiamento climatico, anche il COVID-19 produce un’esternalità globale perché il contagio non conosce frontiere, e richiederebbe una governance definita su ambiti territoriali adeguati alla natura del problema. Vi sono tuttavia differenze importanti, che riguardano il timing dei costi umani dell’inazione; la reversibilità o no dei due fenomeni; l’incertezza e la percezione nell’opinione pubblica degli stessi. Il confronto tra pandemia e mutamento climatico, sostengono gli autori, può fornire comunque utili indicazioni di policy. Terminata l’emergenza Covid occorreranno strumenti innovativi per raggiungere i target climatici. Nuove norme sociali ed una riorganizzazione di lavoro, tempo libero e consumi potrebbero indirettamente condurre ad un diverso modello di consumo energetico, modificando di conseguenza il mix energetico e le emissioni complessive.

Barbara Annicchiarico ed Enrico Marvasi si interrogano sugli aspetti macroeconomici e finanziari della transizione verde, ed in particolare sul disegno e timing ottimali di una governance dinamica della sostenibilità ambientale. La transizione è un processo complesso che include mutamenti strutturali, tecnologici e comportamentali, ed implica rischi economici e sociali rilevanti se mal congegnato e realizzato. L’incertezza circa modalità e tempi della transizione può avere conseguenze gravi; l’efficacia nel perseguimento degli obiettivi climatici richiede una coerenza nell’azione di tutte le autorità di politica economica coinvolte, e la credibilità delle politiche annunciate. Lo strumento del “prezzo del carbonio” (o carbon tax) che pure è una chiave per la transizione sostenibile, presenta alcuni limiti come anche il saggio successivo del volume evidenzia, e deve essere affiancato da altre misure. Le autorità di politica economica e finanziaria hanno un ruolo fondamentale nell’assicurare che la transizione segua un percorso ottimale. Nelle simulazioni degli autori, infatti, lo scenario senza alcun intervento volto a ridurre i danni ambientali è il più costoso sotto il profilo socio-economico, ma è seguito tuttavia da uno scenario di transizione disordinata che concentra le perdite economiche fino al 2030-2040, per poi stabilizzarsi e ridurre i costi socio-economici al 2100. La transizione ordinata presenta invece una profilo più graduale nelle prime fasi, e anche il differenziale tra regioni più e meno colpite aumenta molto meno repentinamente. Il ruolo dei mercati finanziari, delle banche centrali e degli organismi di supervisione risulta decisivo nel collocare la transizione in una dinamica ordinata, riducendo l’ampiezza dei trade-off tra la sostenibilità ecologica e quella socio-economica.

Le esternalità ambientali ed il free-riding associati agli scambi internazionali di merci sono al centro del saggio di Valeria Costantini, Ilaria Fusacchia, Elena Paglialunga e Luca Salvatici, che analizzano il ruolo delle catene globali del valore nelle strategie di controllo delle emissioni climalteranti. La diffusione e la pervasività delle catene globali di offerta, infatti, costituisce un altro esempio della complessità insita nella definizione del perimetro geografico di applicazione delle policy e degli strumenti idonei per il consegumento degli obiettivi. I legami economici e commerciali globali, che si possono sintetizzare con l’integrazione dei processi produttivi, impediscono infatti ad un’azione di mitigazione unilaterale di trasformarsi efficacemente in una riduzione equivalente delle emissioni su scala planetaria. Il tema è ben sintetizzato nel dibattito sul carbon leakage che da qualche anno accompagna la discussione politica sull’efficacia degli strumenti di mitigazione applicati nell’UE, primo fra tutti il meccanismo di scambio dei permessi ad inquinare noto come Emissions Trading Scheme. In sostanza, approvigionarsi da fornitori esteri localizzati in aree non sottoposte ai vincoli europei sulle emissioni, al tempo stesso riduce l’efficacia dello strumento “prezzo del carbonio” e comporta un vantaggio competitivo per i produttori che adottano tale strategia. Questo dimostra, da una parte e di nuovo, la necessità di approcci il più possibile globali di governance della transizione ambientale, dall’altra l’esigenza di un’articolato set di strumenti che tenga conto della realtà attuale dei processi produttivi.

La prima sezione si chiude con il saggio di Maria Cipollina, Luca De Benedictis e Elisa Scibè sui nessi tra problematiche ambientali e migrazioni. Si tratta di una meta-analisi dei contributi scientifici recenti sul tema, volta ad individuare le regolarità in termini metodologici e di risultati nella letteratura. Come riportano gli autori, secondo l’Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati, nell’ultimo decennio le emergenze ambientali hanno causato la migrazione forzata di 21.5 milioni di persone per anno. Questo comprende sia gli effetti di  fenomeni graduali, come l’innalzamento delle temperature o la desertificazione del suolo, sia eventi improvvisi più o meno legati al cambiamento climatico. Non tutte le migrazioni, tuttavia sono di natura internazionale, e stabilire nessi diretti o indiretti è comunque un esercizio complesso. Emerge con chiarezza, quindi, il tema dei livelli idonei di governance e della molteplicità degli strumenti da mettere in campo. Sotto il profilo delle policy, gli interventi nazionali vanno dalla tutela delle proprietà colpite per favorire una temporaneità della scelta migratoria, alla garanzia della scolarizzazione della popolazione migrante minore. In termini di politiche internazionali, l’istituzione dello status di rifugiato ambientale garantirebbe maggiori opportunità per chi abbandonasse, anche pro tempore, il proprio paese di origine. Politiche di medio termine volte a migliorare le condizioni di vita dei luoghi colpiti da eventi ambientali traumatici, inoltre, possono svolge un ruolo fondamentale nel ridurre e rendere reversibili le migrazioni.

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Nella seconda parte del volume, presentiamo quattro saggi sulle relazioni tra regolamentazione ecologica, strategie settoriali e d’impresa, ed attività innovative, con riflessi sugli impatti ambientali dell’industria, sulle prestazioni brevettuali, sulle performance economiche.

Roberta de Luca, Rosalia Greco e Francesca Lotti analizzano i dati sull’attività innovativa e brevettuale dei Paesi Membri della UE, per studiare come questi abbiano reagito alle sollecitazioni introdotte dalle politiche energetiche dell’Unione Europea a partire dai primi anni Duemila. I dati analizzati dalle autrici si riferiscono ai cosiddetti brevetti “green” depositati presso l’Ufficio europeo brevetti (EPO) nel periodo 2000-2018, che codificano le invenzioni in base alla modalità di contrasto al cambiamento climatico, suddividendole in tecnologie di adattamento, tecnologie di mitigazione e, nell’ambito di queste ultime, in tecnologie orientate a ridurre la concentrazione dei gas-serra. Emerge nel complesso che la quota di brevetti “green” sul totale tende ad aumentare nel tempo, con una risposta rilevante dell’attività innovativa rispetto agli stimoli della regolamentazione e dell’orientamento delle politiche UE. Nonostante un calo a partire dagli anni successivi alla crisi finanziaria, la quota di brevetti risulta essere raddoppiata durante il periodo considerato passando dal 5 al 10% circa in quasi tutti i paesi, con un picco attorno al 15% in genere tra il 2010 e il 2014. La politica ambientale dell’Unione ha quindi orientato la ricerca e l’innovazione verso l’uso di fonti eco-sostenibili e lo sviluppo di sistemi di generazione, trasmissione e distribuzione dell’energia, contribuendo per questo canale ad una riduzione delle emissioni di gas-serra ed in particolare di quelle generate del settore energetico. L’Italia mostra, in questo quadro, una specializzazione rispetto agli altri Paesi europei nella classe tecnologica inerente al comparto dei trasporti, mentre una accelerazione all’attività brevettuale potrebbe giungere dal PNRR per il complesso delle innovazioni green delle filiere industriali.

I nessi tra regolamentazione ambientale, innovazione digitale e crescita della produttività sono al centro del contributo di Roberta De Santis, Piero Esposito e Cecilia Jona Lasinio. In analogia con il paper precedente, ed in antitesi con la visione secondo cui le politiche ambientali impongono solo costi addizionali per le imprese, riducendo inevitabilmente la produttività, gli autori considerano l’ipotesi che le policy – se ben disegnate ed orientate – possano fornire incentivi all’innovazione tecnologica.  Questo può condurre a effetti positivi in termini di ricadute sulla produttività capaci di compensare i costi di adozione delle misure di salvaguardia dell’ambiente. Il lavoro distingue tra gli impatti degli strumenti regolamentari di comando e controllo, che hanno mantenuto tra il 1990 e il 2015 un peso relativamente più elevato nei Paesi OCSE, e tipologie di regolamentazione ambientale più flessibili che utilizzano, almeno in parte, meccanismi di mercato come ad esempio l’Emissions Trading Scheme con quote di emissione di gas-serra. Sia gli strumenti di mercato sia quelli di comando e controllo sono efficaci, nel campione dei 18 Paesi avanzati considerati, per stimolare la produttività. Emerge inoltre una relazione interessante tra intensità di dotazioni digitali ed efficacia della regolamentazione ambientale, con gli strumenti di mercato (ad esempio, tassazione e schemi di commercio di emissioni) più efficaci nell’innescare la sinergia tra protezione ambientale e produttività in Paesi ancora poco digitalizzati. Nei Paesi a maggiore intensità di capitale ICT, invece, gli strumenti di comando e controllo (ad esempio, sussidi alla R&S e standard qualitativi) mostrano un ruolo congiunto sia nella crescita della produttività sia nell’accumulazione digitale.

Stefano De Santis e Roberto Monducci proseguono nell’indagine del ruolo svolto dalla sostenibilità ambientale analizzando la dimensione microeconomica, in relazione alla propensione al cambiamento e all’innovazione nell’ambito delle dinamiche aziendali. Il paper si incentra sul tema della capacità delle imprese di reagire a pressioni di cambiamento, indotte da fattori esterni e/o interni, sulla base di evidenze o percezioni di rischi/opportunità. La sostenibilità ambientale nel settore manifatturiero, nella componente di prevenzione dell’ambiente ed in quella di evoluzione delle tecnologie e dei prodotti, è sotto questo profilo un motore potente, sia con riferimento al timing ed all’impatto delle politiche di regolazione, sia rispetto ai cambiamenti del mercato. L’analisi empirica degli autori si sofferma quindi sulla relazione tra risorse innovative delle imprese, propensione alla sostenibilità ambientale e prestazioni aziendali, grazie ad un dataset e ad una metodologia di classificazione delle in larga parte originali. Con una segmentazione delle imprese manifatturiere in tre gruppi, quelle “Laggard” in ritardo, quelle “High potential” con prospettive importanti e le “Star” già proiettate su elevate capacità e performance, gli autori mostrano come gli indicatori relativi alle tre dimensioni considerate (dinamismo strategico, capacità innovativa e propensione alla sostenibilità ambientale) si distribuiscono in modo non equivalente. In particolare, mentre l’orientamento alla sostenibilità ambientale è diffuso anche presso le imprese in ritardo, la sua progressione nelle classi di imprese più dinamiche appare tuttora meno marcata rispetto a quella delle altre due dimensioni dell’evoluzione strategica e delle capacità innovative. Esiste ancora, quindi, uno spazio di progresso per le imprese italiane sul versante della sostenibilità, che può aprire prospettive interessanti se si considera con gli autori che ad un aumento dell’indice di sostenibilità corrisponde un premio atteso di produttività che varia fra il 5,1% e l’8%, a parità delle altre condizioni.

Alla sfida delle strategie per il contrasto al cambiamento climatico, l’industria italiana si presenta oggi potendo comunque contare su performance ambientali tra le migliori a livello internazionale. Come argomenta Livio Romano, l’indice composito di efficienza nell’utilizzo delle risorse costruito dalla Commissione europea, che misura l’intensità del consumo di materie prime nonché il valore economico generato da esse, colloca l’Italia al secondo posto nella classifica UE, con una bassa impronta carbonica dell’industria ed una economia circolare ben sviluppata, pur in presenza delle difficoltà ad intercettare la sfida ambientale dal lato dello sviluppo endogeno di innovazioni “green” come segnalato nel primo contributo della seconda sezione. Sotto questo ultimo profilo, almeno due gap vanno colmati: quello che che ancora divide l’ecosistema della ricerca pubblica da quello dell’innovazione industriale; e quello nella dotazione di capitale umano qualificato all’interno delle imprese manifatturiere, indirizzando i percorsi di formazione verso competenze tecniche e manageriali specifiche per le nuove tecnologie green e digitali.

 

[1] “Laudato Sì”, Lettera Enciclica sulla Cura della Casa comune, Libreria Editrice Vaticana, 2015, p.146.

[2]  Si vedano, tra gli altri: Mordecai Roshwald, “Level 7”, McGraw-Hill, New York (1959) ed il film omonimo; Pat Frank, “Alas, Babylon”, Spectra, Florida (1959).

[3] Tra gli altri: “The Day After Tomorrow” (2004) diretto da Roland Emmerich.

[4] Si veda, ad esempio: Michael Shellenberger, “Apocalypse Never: Why Environmental Alarmism Hurts Us All”, HarperCollins Publishers Inc., 2020.

[5] David Quammen, “Spillover: Animal Infections and the Next Human Pandemic”, W. W. Norton & Company (2012).

[6] “Eurobarometer Survey: Protecting the environment and climate is important for over 90% of European citizens”, EU Commission, Brussels, 3 March 2020.

[7] Si vedano, ad esempio, molti recenti contributi pubblicati nella serie “ Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)” dalla Banca d’Italia.

[8] Mancur Olson, The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups, Harvard Univ Press (1965).

Introduzione - RIVISTA DI POLITICA ECONOMICA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE E INNOVAZIONE - SPILLOVER INTERNAZIONALI, STRATEGIE INDUSTRIALI

L'autore

Stefano Manzocchi è Professore ordinario di Economia internazionale alla Luiss e direttore del Centro Studi della Confindustria.


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