È necessaria una doppia riforma contro le asimmetrie

9 luglio 2021
Editoriale Europe
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“La pandemia non è finita. Anche quando lo sarà avremo a che fare a lungo con le sue conseguenze. Una di queste è il debito”, così dice Mario Draghi nel discorso tenuto all’Accademia dei Lincei giovedì scorso. Già oggi, in Italia, il debito pubblico è balzato a circa il 160 per cento del Pil. Per evitare che la pandemia creasse le condizioni di un’implosione sociale, con i suoi effetti di instabilità politica, tutti gli stati democratici hanno dovuto promuovere massicci programmi di intervento economico e sociale.  Tale intervento è risultato particolarmente complesso in Europa, dove gli stati nazionali sono divenuti stati membri dell’Unione europea (Ue). Contrariamente allo stato nazionale, lo stato membro dell’Ue non controlla, individualmente, la regolazione del mercato, né controlla individualmente, se partecipa all’Eurozona, le principali risorse di politica economica (la moneta e il fisco). L’interdipendenza ha cambiato le relazioni tra economia e politica, richiedendo agli stati membri dell’Ue di agire insieme per crescere (così riducendo il loro debito).

Però, se è vero che l’interdipendenza è una condizione strutturale della politica europea, è anche vero che essa può avere effetti diversi sugli stati che ne sono coinvolti. Dani Rodrik, economista della Harvard Kennedy School, argomentò (in un celebre saggio del 2007) che gli stati sono divenuti prigionieri di un inevitabile (inescapable) trilemma. Se scelgono la crescita integrandosi nell’economia globale sono costretti a rinunciare alla propria sovranità oppure a ridimensionare la propria democrazia, se vogliono invece preservare queste ultime debbono accettare di ridurre la propria partecipazione all’integrazione economica sovranazionale. Se consideriamo l’esperienza dell’Eurozona, le cose non sono andate così. Nella crisi finanziaria del decennio scorso, il trilemma si è dimostrato “evitabile” per alcuni stati (dell’Europa del nord) e “inevitabile” per altri stati (dell’Europa del sud). Ciò fu dovuto (inter alios) alle regole dell’Eurozona, regole che non furono stabilite in Cielo ma sulla terra dei rapporti di forza (anche culturali) tra gli stati. Sebbene formalizzate nei Trattati europei, quelle regole non corrispondono a comandamenti divini.

La revisione delle regole costituisce anzi una scelta necessaria per evitare che la risposta alle conseguenze della pandemia produca nuove asimmetrie tra stati e nuove diseguaglianze tra gruppi sociali. Asimmetrie e diseguaglianze che hanno penalizzato in particolare l’Italia. Nel nostro caso, è necessario riformare le regole interne che hanno organizzato il patto sociale che ha collegato (finora) le autorità pubbliche con i cittadini. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è molto preciso in proposito. Senza la riforma delle basi sociali di quel patto (nella pubblica amministrazione, nella giustizia civile, nella tassazione, nella concorrenza, nel mercato del lavoro), gli investimenti resi possibili da Next Generation EU avranno poca o punto efficacia. Nello stesso tempo, è necessario che l’Italia operi per riformare anche le regole esterne, quelle del Patto di stabilità e crescita (PSC), su cui si è basata l’interdipendenza dell’Eurozona pre-pandemia.

Come le riforme nazionali debbono aprire il Paese (liberandolo dalle resistenze conservative delle corporazioni), così le riforme europee dovrebbero aprire l’Eurozona (liberandola dalla chiusura normativa che l’ha imprigionata). Waltraud Schelkle, scienziata politica della London School of Economics, mostrò (in un volume del 2017) come il PSC abbia finito per interpretare l’obiettivo della convergenza economica tra i Paesi dell’Eurozona nei termini del perseguimento della loro uniformità strutturale. Con il risultato di accentuare le divisioni tra di loro, invece di ridurle. Contrariamente a ciò che è avvenuto nella costruzione del mercato unico, basata sulla formazione e rafforzamento di capacità regolative sovranazionali (dalla Commissione europea alle agenzie indipendenti alla Corte europea di giustizia), l’integrazione della politica fiscale e di bilancio dell’Eurozona è avvenuta attraverso la regolazione delle istituzioni e politiche fiscali e di bilancio nazionali. Invece di costruire una capacità fiscale e di bilancio dell’Eurozona, così da bilanciare la politica monetaria decisa a livello di quest’ultima dalla Banca centrale europea, il PSC ha perseguito la regolazione sempre più stretta delle politiche fiscali nazionali. Nelle condizioni di political economies diverse tra di loro, tale regolazione ha finito per risultare congeniale con le strutture economico-sociali di alcuni Paesi e non di altri. Di qui, il ricorso continuo alla flessibilità nell’applicazione di quelle regole, come se il problema fosse dovuto alla loro implementazione piuttosto che alla loro definizione. Un’unione monetaria non può funzionare senza regole comuni, tuttavia vi sono regole che privilegiano la stabilità ed altre che favoriscono la crescita. Così come vi sono regole che favoriscono la crescita senza sacrificare la democrazia nazionale ed altre che generano l’esito opposto. Costruendo una capacità fiscale e di bilancio (dell’Eurozona), da utilizzare in funzione anticiclica e sulla base di un preciso mandato democratico, è possibile liberare tutti gli stati membri (dell’Eurozona) dalla prigionia del trilemma di Rodrik.

Insomma, occorre crescere, se si vuole rendere sostenibile il debito indotto dalla risposta alla pandemia. Per crescere, però, occorre riformare, contemporaneamente, il patto sociale sia tra gli italiani che tra gli europei. Nell’interdipendenza, infatti, non c’è un prima e un dopo.

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

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L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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