Elezioni regionali in Francia. Lezioni per i partiti francesi e italiani
12 luglio 2021
Policy Brief n. 26/2021 Luiss School of Government
In Francia, lo scorso 27 giugno, si è tenuto il secondo turno delle elezioni per Regioni e province (Régions e Départements). Si è trattato dell’ultima tornata elettorale che ha coinvolto tutti i cittadini prima delle elezioni presidenziali del 2022. Nasce da qui l’idea di trarne alcune “lezioni” per la politica francese oltre che, per quanto possibile e considerate le differenze di contesto, per la politica italiana.
L’astensione record e i rischi per la democrazia
In democrazia decide chi vota, dunque chi si presenta all’urna elettorale, e non chi si astiene dal rito democratico per eccellenza. Tutto vero. Eppure in questa occasione è doveroso cominciare sottolineando il dato dell’astensione record: fra i Francesi col diritto al voto, infatti, appena uno su tre ha deciso di andare al seggio elettorale. L’astensione ha superato il 65%, un record per la Francia. Ci sono fattori contingenti con cui è possibile tentare di spiegare perché tanti Francesi si sono tenuti alla larga dalle urne: la pandemia da Covid-19 e i rischi sanitari collegati, ma allo stesso tempo il fatto che proprio questi fine settimana di bel tempo estivo sono i primi di maggiore libertà dopo il lockdown. Tuttavia non si possono ignorare fattori strutturali anche più importanti, considerato che nel Paese il tasso di astensione cresce di elezione in elezione e che d’altra parte tutti i partiti politici nazionali avevano invitato a mobilitarsi per il voto del 27 giugno dopo l’astensione senza precedenti del primo turno. In primo luogo, secondo le principali rilevazioni demoscopiche, i cittadini francesi mostrano di non essere totalmente consapevoli o convinti dell’utilità di istituzioni locali come le Regioni e i Dipartimenti. All’opposto, si è diffusa l’idea che ormai l’unica elezione che conta è quella per il Presidente, dunque è poco utile andare a votare in altre occasioni. Più in generale, poi, c’è una diffidenza verso i partiti politici e verso la capacità di incidere della politica. Il sentimento più diffuso tra chi si astiene si può sintetizzare così: “Siamo andati a votare tante volte, ma non è mai cambiato nulla, dunque votare non serve a niente”.
Il ritorno di centro-destra e centro-sinistra. Ma fino a quando?
Centro-destra e centro-sinistra sono i blocchi usciti vincenti dalle elezioni regionali, essendosi aggiudicati tutte le Regioni in palio: 7 sono andate ai Repubblicani, 5 ai Socialisti. Si nota quindi una rinnovata centralità dei partiti tradizionali, visto che né i Repubblicani e né i Socialisti erano arrivati al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2017, quando al secondo turno si sfidarono Emmanuel Macron (En Marche) e Marine Le Pen (oggi Rassemblement National, RN). Che interpretazione dare dunque alle scelte di quella parte (minoritaria) dei Francesi che si è recata alle urne? Innanzitutto è indiscutibile che l’area della destra (se consideriamo Repubblicani e RN) sia maggioritaria nel Paese rispetto all’area della sinistra. Inoltre, con questo voto, è stato premiato il relativo buon governo dei partiti tradizionali (tutti i presidenti uscenti di Regione che si sono candidati sono stati rieletti) e allo stesso tempo la macchina organizzativa di tali partiti. Le elezioni regionali confermano, a contrario, che il motore della macchina organizzativa lepenista non va ancora a pieni giri, e che En Marche non ha nemmeno acceso questo motore.
È possibile trarre da tutto questo delle indicazioni per le future elezioni presidenziali? In via preliminare, occorre dire che la partecipazione elettorale nel voto per scegliere l’inquilino dell’Eliseo potrebbe essere più elevata. I Francesi, in media, sono convinti che la figura istituzionale del Presidente sia l’unica a contare davvero, inoltre in quel caso i candidati sono ben identificati, quindi è possibile attendersi una maggiore mobilitazioni degli elettori. Il risultato positivo del centro-destra alle elezioni regionali è forse il risultato meno atteso della vigilia che potrebbe cambiare le carte in gioco per gli attuali favoriti per l’Eliseo, cioè Macron (centrista) e Le Pen (destra nazionalista).
Marine Le Pen, a posteriori, ha sicuramente sbagliato a enfatizzare l’importanza del voto regionale, identificandolo come una tappa dell’“istituzionalizzazione” che avrebbe dovuto spingere il Rassemblement National all’Eliseo. La sconfitta nella Regione della Provenza, in particolare, è davvero cocente. I principali rilevamenti d’opinione attribuiscono alla Le Pen un 24% di consensi che è ormai identificabile come “zoccolo duro” della leader, ma adesso nel partito sono destinate a crescere nuovamente le tensioni per definire la strategia in vista dell’anno prossimo: meglio un RN più istituzionale e attento ai temi economici, una forza “tranquilla” che per esempio non chiede più l’uscita dalla moneta unica, oppure meglio un RN più radicale e attento ai temi identitari? Un dilemma da risolvere, tanto più che si rafforzano le voci di candidatura “alla destra” del RN, come quella del saggista e giornalista Éric Zemmour.
Macron ha subìto stavolta una sconfitta pesante. Per sfidare Xavier Bertrand, il candidato neo-gollista che si è imposto nella Regione di Hauts-de-France, il Presidente aveva mobilitato addirittura cinque ministri dell’attuale esecutivo, spingendoli a candidarsi. Le elezioni regionali però dimostrano che il partito di Macron, En Marche, esiste soltanto sulla carta. E Macron non ha un partito per una semplice ragione: non ha mai voluto costruirlo. Il Presidente in carica è intimamente convinto che ogni partita elettorale si giochi attorno alla sua persona, alla sua abilità comunicativa, e che la capacità di governo dipenda dai suoi poteri; la sua dunque è una scelta deliberata che si spiega con un eccesso di hybris, ricorda un po’ le modalità con cui, in Italia, Silvio Berlusconi ha gestito la crescita del suo partito personale “Forza Italia”. Dunque Macron sul territorio non esiste, lo si era già visto un anno fa alle elezioni amministrative, ma per il momento i sondaggi dicono che ha uno zoccolo duro di consensi attorno al 25%. Questo elettorato rimarrà granitico fino al prossimo anno? La risposta a un simile quesito passa anche per le sorti del centro-destra.
Oggi la destra dei neo-gollista, o meglio repubblicana, ha senza dubbio vinto le elezioni regionali. Il movimento ha il vento in poppa nel Paese ma, al momento, presenta un eccesso di offerta di candidati per l’Eliseo, almeno tre. Parliamo di Xavier Bertrand, Laurent Wauquiez e Valérie Pécresse. L’unico ufficialmente appartenente ai Repubblicani però è Wauquiez, gli altri sono fuoriusciti dal partito. Betrand tuttavia ha affermato che correrà comunque per l’Eliseo, quali che saranno le scelte del partito dei Repubblicani. La destra tradizionale francese, dunque, nemmeno dopo questa apparente “resurrezione” sembra voler abbandonare un’abitudine che condivide con la sinistra storica del Paese: quella delle lotte fratricide al suo interno. Una chiosa finale sulla sinistra d’Oltralpe: oggi è contemporaneamente minoritaria e ultra-frammentata. Anche i Verdi hanno almeno tre candidati per l’Eliseo. Nel complesso, dunque, c’è una frammentazione politica che da una parte favorisce Macron – indiscusso nel suo schiarimento – e Le Pen (malgrado le sue difficoltà attuali), e dall’altra parte sconcerta l’elettorato.
Possibili lezioni per i partiti “cugini” in Italia
Il voto regionale francese si è svolto in un contesto radicalmente differente da quello italiano, e lo stesso accadrà per le elezioni presidenziali, alla luce peraltro dell’inedita esperienza dell’esecutivo italiano di quasi unità nazionale guidato da Mario Draghi. Detto ciò, proviamo a elaborare alcune “lezioni” di massima per la politica italiana.
Primo, non sottovalutare la disaffezione degli elettori. Sono sempre più numerosi i cittadini, nelle democrazie occidentali europee, che non si recano nemmeno alle urne. Si tratta perlopiù di elettori giovani, di appartenenti ai ceti popolari e di persone con bassi livelli d’istruzione. Tutto questo non può non essere considerato un elemento di allarme per le democrazie liberali.
Secondo, la sinistra in Italia come in Francia è in grande difficoltà. In Italia essa è minoritaria nei sondaggi. Il Partito Democratico veleggia attorno al 20% da mesi ormai, ben distante da una maggioranza assoluta o relativa che sia. Altro fattore comune al campo progressista: la frammentazione. La differenza è che mentre En Marche, movimento nuovo che sparigliato il campo progressista, è comunque in testa nei sondaggi per le Presidenziali, il Movimento 5 Stelle – che ha drenato tanti voti dalla sinistra, pur essendo discutibile la sua definizione di partito “di sinistra” – oggi è in panne, e il Pd non sembra in grado di gestirne la crisi a proprio vantaggio.
La terza “lezione” è per la destra italiana. In teoria, come rivendicato anche da Berlusconi in una recente intervista, il partito più vicino ai Repubblicani francesi è Forza Italia. In pratica, però, i consensi di questo partito personale sono attualmente ridotti al lumicino. Da qui le attenzioni degli osservatori non possono che spostarsi sul futuro della Lega di Matteo Salvini. L’idea di una federazione con Forza Italia risponde sicuramente al tentativo di “istituzionalizzarsi” ancora un po’, dopo la svolta impressa con la partecipazione al Governo Draghi, con l’obiettivo di intercettare una parte dell’elettorato moderato. Nel contesto post-pandemia, in effetti, la politica urlata, fatta di opzioni troppo schematiche o semplificatrici, sembra per il momento perdere terreno nelle preferenze degli elettori (v. Policy Brief n.14/2021, “L’effetto Draghi sui partiti politici italiani. Alcune considerazioni preliminari). Dall’altra parte il partito di Salvini soffre la concorrenza alla sua destra di Fratelli d’Italia, di Giorgia Meloni, all’opposizione del Governo Draghi. Di conseguenza non è del tutto sopita la tentazione di una nuova radicalizzazione per recuperare consensi in quell’area. Per il futuro della destra italian, dunque, sarà fondamentale capire come finirà la sfida interna alla Lega tra “istituzionali” e “radicali”, e con quanta efficacia questa sfida sarà comunicata agli elettori.
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