La crociata di Biden contro le fake news sui vaccini
26 luglio 2021
Policy Brief n. 28/2021 della School of Government
Ha suscitato clamore la presa di posizione del Presidente degli Stati Uniti contro la disinformazione in materia di vaccini ad opera di Facebook. Va precisato che Joe Biden ha risposto ad una domanda che indicava espressamente come responsabile di questa situazione il gruppo di Zuckerberg e, quindi, è assai probabile che le sintetiche parole dell’inquilino della Casa Bianca (“stanno uccidendo persone, l’unica pandemia che abbiamo è tra le persone non vaccinate”) pronunciate prima di imbarcarsi sull’Air Force One si riferissero non solo a Facebook ma a tutte le piattaforme che sfruttano le potenzialità del web 2.0. Obiettivo di Biden era quello di invitare gli editori dei cosiddetti new media a rimuovere con maggiore determinazione e velocità i post che contengono tesi complottiste e che associano i vaccini ad effetti collaterali gravi come per esempio autismo e infertilità, con la conseguenza di accrescere il numero degli scettici nei confronti dei vaccini, se non addirittura quello dei “no vax”.
Ad Abc News un portavoce di Facebook ha replicato a Biden, specificando che si tratta di “accuse non supportate dai fatti” e cioè che più di due miliardi di persone hanno avuto accesso alle campagne in favore dei vaccini, più di quanto sia avvenuto su ogni altra piattaforma web, e che oltre 3 milioni di americani hanno usato il tool di questo social network per sapere dove e come immunizzarsi contro il Covid-19. Il Guardian sostiene che all’origine del flusso maggiore di disinformazione su questa materia ci sarebbe una dozzina di persone presenti un po’ su tutte le piattaforme, anche se su Facebook in misura maggiore delle altre. Si tratterebbe di un gruppo formato da alcuni medici, da un bodybuilder, da un blogger che si occupa di wellness, da un estremista religioso e da uno dei nipoti di JFK, ovvero tale Robert F. Kennedy Jr. Un gruppo che raggiungerebbe una audience di quasi sessanta milioni di persone, grande quindi quanto la popolazione italiana. Il Center for Countering Digital Hate ha analizzato oltre ottocentomila post sui social, scoprendo che il 65% di essi proveniva da queste dodici persone. Il ragionamento alla base della sortita di Biden è che rimuovendo gli account che pubblicano il numero maggiore di fake news si possa automaticamente ridurre la quantità di disinformazione.
Ricostruita la polemica degli ultimi giorni, è utile svolgere alcune considerazioni di carattere generale sul fenomeno dell’information disorder (la definizione è del Consiglio d’Europa e risale al 2017). Ci sono tre argomenti da affrontare, sebbene in modo sintetico.
Il primo riguarda la definizione di questa categoria, presente ormai anche nella letteratura scientifica. Esistono tre tipologie applicative del fenomeno dell’information disorder, un fenomeno che rileva da punto di vista politico, economico e socio-culturale. La prima è quella della dis-information, ovvero la volontà di costruire notizie false per orientare comportamenti collettivi, dopo aver modificato idee e opinioni individuali. La seconda è la mis-information, ovvero la diffusione involontaria di notizie false che si propagano in modo virale, indipendentemente quindi dall’azione del produttore dei contenuti. È evidente che il discrimine tra la prima e la seconda tipologia risieda nella intenzionalità o meno dell’agire comunicativo quando e se esso sia finalizzato alla proposizione nella sfera pubblica mediata di elementi in grado di alterare la dinamica democratica o il funzionamento del mercato, ma anche di porsi in contrasto, come nel caso che qui stiamo analizzando, con la verità ufficiale della scienza in quanto sistema. Alle prime due tipologie se ne aggiunge una terza, la mal-information che consiste nella circolazione di informazioni basate su fatti realmente accaduti ma strumentalizzati per arrecare danno a persone, istituzioni, organizzazioni, aziende.
Il secondo argomento è relativo alla nozione di fake news. Con questa espressione si intende descrivere sia contenuti del tutto falsi e quindi costruiti all’occorrenza per ingannare i fruitori di informazione, sia contenuti verosimili e, anche per questo, più dannosi dei primi perché pur sempre radicati ad alcuni elementi fattuali che vengono all’uopo ingigantiti, decontestualizzati, enfatizzati o al contrario sottovalutati in base alle strategie adottate e agli obiettivi da perseguire.
Il terzo e più importante argomento è infine quello relativo alle possibili soluzioni da adottare. Ci si chiede quanto sia utile poggiarsi sulla sola richiesta di espulsione dalle piattaforme social dei fake content creator, al netto del confine labile che si registra quando il contenuto è relativo non a qualcosa che viene presentato come un’informazione da fruire, ma a qualcosa che rimane relegato al rango di semplice opinione. Non dimentichiamoci che negli Stati Uniti e nelle democrazie occidentali vige un principio di grande rilevanza costituzionale che è quello del free speech o libertà d’espressione. Non sono pochi i rischi di mettere in discussione questo caposaldo della modernità quando si cancella tutto ciò che non è conforme a quanto stabilito dall’autorità costituita. Se è comprensibile il ragionamento in materia di vaccini, poiché è la quasi totalità del mondo scientifico e delle autorità sanitarie e farmacologiche internazionali e nazionali a certificarne la non dannosità e soprattutto la loro utilità per sconfiggere la pandemia, un po’ meno lo diventa quando la materia del contendere è di ben altra natura. Cosa si fa in questi casi? Si cancella tutto ciò che Noelle Neuman avrebbe collocato negli spazi marginali generati dalla spirale del silenzio con la prospettiva del consolidamento del pensiero unico?
Piuttosto che operare solo in direzione dell’inasprimento delle sanzioni per i produttori e distributori di contenuti fake che pure rappresenta un intervento indispensabile, occorre considerare le modalità di ricezione dei contenuti da parte dei pubblici di riferimento e quelle di amplificazione dei messaggi attraverso le dinamiche della condivisione sulle piattaforme.
Le nostre esperienze quotidiane ibridano info-stimolazione, ovvero dati e informazioni specifiche, ed info-simulazione, ovvero interpretazioni e simulazioni. La diffusione di false percezioni può comportare come effetto indiretto anche la diminuzione della capacità di reazione dei cittadini davanti all’offerta di contenuti falsi o verosimili. Le “dispercezioni” rendono, oltretutto, meno riconoscibili e meno contrastabili soprattutto disinformation e malinformation.
Lo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, ha invitato a distinguere tra il “pensiero veloce” e il “pensiero lento”, tra il “sistema 1” e il “sistema 2”, sapendo che il primo, a differenza del secondo, si poggia sul basso impegno cognitivo, sulla scarsa disponibilità ad elaborare le informazioni. In pratica l’individuo utilizzerebbe il sistema 1 per far leva su dinamiche cognitive di tipo analogico-associativo, frutto di sostanziale pigrizia mentale, ed utilizzerebbe il sistema 2, ovvero il ragionamento, per avvalorare le proprie convinzioni e proteggere le proprie idee in un percorso logico-mentale di tipo “verificazionista” (basta una sola evidenza coerente con una visione ex ante per suffragarla), anziché “falsificazionista” (basta una sola evidenza contraria per negare validità ad una determinata tesi). Ad essere fake potrebbero, perciò, essere anche i nostri sistemi cognitivi, specie se non investiamo a sufficienza in consapevolezza e in pensiero critico, in progetti di media education nella doppia direzione di “educazione ai media” ed “educazione con i media”. Questo approccio è più lungo e complesso del primo, ma alla lunga è quello che davvero può sconfiggere la disinformazione.
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