L’Europa apra le porte solo alle vere democrazie
27 luglio 2021
Non era mai sparito dall’agenda, ma l’obiettivo dell’ulteriore allargamento dell’Unione europea (Ue) è stato recentemente riproposto. Il governo sloveno, che detiene la presidenza semestrale dal 1° luglio, ha dichiarato il suo impegno ad accelerare il processo di allargamento ai Balcani occidentali; il Trio costituito da Georgia, Moldova e Ucraina ha appena incontrato il presidente del Consiglio europeo per discutere i tempi e le modalità del loro accesso all’Ue; il governo ungherese ha ribadito la priorità dell’allargamento alla Serbia e il governo polacco all’Ucraina; il presidente turco ha ricordato l’impegno assunto con il suo Paese quando fu siglato l’accordo per trattenere nei suoi confini i rifugiati che fuggivano dalla Siria nel 2015. Di qui, due domande: come ha funzionato l’ultimo allargamento e come valutare le pressioni verso un nuovo allargamento.
Cominciamo dalla prima domanda. Il grande allargamento del 2004 e 2007 è stato un successo sul piano economico, ma non sul piano politico. Partecipando al mercato unico, i Paesi dell’Europa orientale hanno potuto alzare il loro tenore di vita, avviando la costruzione delle basilari istituzioni del mercato. Però, per quanto riguarda le basilari istituzioni della democrazia, le cose sono andate diversamente. Pochi giorni fa, il Tribunale costituzionale polacco ha stabilito che la richiesta della Corte europea di giustizia (formulata qualche giorno prima e finalizzata a sospendere l’attività di un organo introdotto per controllare politicamente i giudici polacchi) non ha valenza nel suo Paese. In un editoriale di inusuale durezza, il Financial Times ha affermato che se “il governo polacco non vuole accettare gli obblighi che derivano dall’essere membro dell’Unione europea, allora deve prepararsi a lasciarla”. Negli stessi giorni, il governo ungherese ha rifiutato di rivedere (come richiesto dalla Commissione europea) la legge che equipara l’omosessualità alla pedofilia, aggiungendo che promuoverà un referendum popolare sulla legge in questione così da rispondere “con la voce del popolo alle invadenze di Bruxelles”. Martedì scorso, la Commissione europea ha pubblicato il rapporto 2021 sulla situazione dello stato di diritto nei Paesi membri dell’Ue, da cui risulta che l’indipendenza del potere giudiziario è particolarmente disattesa in Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, oltre ad essere contrastata in Polonia e Ungheria. Ciò significa che, in quei Paesi, il potere giudiziario non potrà controllare l’uso appropriato dei fondi di Next Generation EU da parte del potere politico. Una frattura di valori, tra quei Paesi e il resto dell’Ue, si è radicalizzata. Il grande allargamento ha ricomposto economicamente l’Europa, ma ha diviso politicamente l’Ue.
Arriviamo così alla seconda domanda. Come valutare i nuovi allargamenti? Essi sono plausibili se si assume che l’Ue sia (o debba essere) un’organizzazione internazionale. È ciò che pensano le leadership politiche dei Paesi dell’Europa orientale, ma anche alcune tecnocrazie di politica internazionale dei ministeri degli esteri e dei think-tanks dell’Europa occidentale. Per costoro, l’Ue dovrebbe estendersi a tutto il continente, in quanto la sua missione è la sicurezza geo-politica di quest’ultimo. L’allargamento è il sostituto della politica estera, l’Ue la replica civile della NATO. Se l’Ue è un’organizzazione internazionale, allora il suo funzionamento non deve essere appesantito da considerazioni relative alla legittimità democratica delle sue decisioni o al rafforzamento delle sue istituzioni comuni. Un’organizzazione internazionale è costituita di stati rappresentati da governi legittimati dalle loro rispettive costituzioni nazionali. Due sostenitori di tale visione, Paul Magnette e Kalypso Nicolaidis, hanno recentemente proposto che l’Ue venga rappresentata internazionalmente dal presidente di turno semestrale, non già dal presidente della Commissione europea o del Consiglio europeo. Tuttavia, l’Ue è più che un’organizzazione internazionale, anche se è meno di un’organizzazione federale. La politica europea è diventata parte della politica interna e viceversa. Tant’è che, negli stati membri, la politica europea si è trasferita dai ministeri degli esteri (sedi della politica internazionale) agli uffici del capo del governo (sedi della politica interna). Comunque si definisca il suo modello, l’Ue è un’organizzazione sovranazionale che non coincide con i suoi stati membri, tanto meno con l’Europa in quanto tale. Ne consegue che essa deve essere rappresentata da autorità sovranazionali, non già da un premier nazionale che rappresenta esclusivamente gli elettori del proprio Paese. Solamente un’Ue capace di avere una sua politica estera può garantire la sicurezza del continente. Se l’Ue è un sistema politico democratico, il suo funzionamento richiede l’omogeneità di valori tra i suoi stati membri. Ecco perché non può allargarsi a stati che non ne condividono i presupposti politici. Gli allargamenti del 2004 e 2007 hanno infatti condotto ad un rafforzamento dei nazionalismi all’interno dell’Ue, non già ad un loro addomesticamento.
Insomma, la visione internazionalistica è in contrasto con la realtà istituzionale dell’Ue. Poiché l’allargamento implica che gli stati che diventano membri saranno rappresentati in tutte le istituzioni del circuito decisionale, il risultato sarebbe l’ulteriore indebolimento dell’Ue. Le identità nazionali non cambiano frequentando Bruxelles, come ci ha ricordato Brexit. Occorre creare organizzazioni distinte all’interno di un’Europa plurale. La cooperazione economica non implica l’integrazione politica.
Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.
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