Le scienze sociali e la Terza missione delle università
2 agosto 2021
Oltre alla ricerca e alla didattica, la Terza missione (TM) delle università riguarda l’impatto che le loro attività potrebbero e dovrebbero avere nel mondo esterno. Spesso si pensa, quindi, ai ritrovati che hanno un valore economico, e come tali per un verso attirano finanziamenti e contratti conto terzi mentre per altro verso possono generare ulteriori introiti attraverso i brevetti, il che mette in primo piano settori quali la farmacologia, la medicina, l’ingegneria e in genere tutti quelli vocati a produrre avanzamenti tecnologici. Una diversa accezione di TM attiene alla comunicazione e alla diffusione della ricerca e della didattica attraverso i vari tipi di media, la scuola, o iniziative – quali conferenze, presentazioni di lavori scientifici, convegni, video, materiali divulgativi – che si rivolgono non solo e non tanto agli studiosi, quanto piuttosto a un pubblico generalista. Può pertanto avvenire che quando si parla di TM non si pensi molto alle scienze sociali, ovvero caso mai lo si faccia avendo per lo più in mente questo secondo filone di attività, che per sua natura sembrerebbe non richiedere significativi sostegni economici.
Va tuttavia rilevato che anche nel campo delle scienze sociali si possono produrre brevetti, specie quando queste interagiscono con l’informatica e la scienza dei dati. Si pensi, ad esempio, alla creazione di software da applicare in vari ambiti, tra i quali le professioni forensi, la scienza dell’amministrazione, le organizzazioni complesse, la rilevazione di certi comportamenti sociali.
Inoltre, cosa ancor più importante, possono aversi taluni impatti esterni di notevole rilevanza quando l’attività degli scienziati sociali (ad esempio sociologi, economisti, scienziati politici, giuristi e altri) influenza, o potrebbe presumibilmente influenzare, le politiche pubbliche. Ciò potrebbe anzitutto avvenire con riferimento alla realtà locale in cui un dato ateneo si trova a operare: a seconda dei casi la città, l’area metropolitana, la regione e così via. Oltre a queste essenziali interazioni – per così dire – più o meno a chilometro zero, vengono forniti anche contributi capaci di migliorare politiche nazionali, dell’Unione Europea, internazionali. Alcune università hanno tradizioni e vocazioni specifiche (anzitutto perché sono dotate di certe facoltà o di certe scuole accademiche, ma non soltanto per questo). È poi possibile che a seconda dei problemi oggetto di indagine le scienze sociali collaborino con altri tipi di scienze, quali la biologia, la meteorologia e altre se si tratta di ambiente, la medicina se si tratta di salute, l’architettura e l’ingegneria nelle sue varie forme se si tratta di urbanistica, infrastrutture o tecnologie.
Ecco dunque che tutte le università dovrebbero interpellare se stesse, chiedendosi cosa stanno facendo in relazione alle loro diverse missioni, nonché cosa potrebbe essere necessario fare per restare all’altezza di ciascuna delle tre. D’altro canto, quando ci si pone il problema di promuovere il loro assolvimento (tanto al livello dei singoli atenei quanto a quello del sistema universitario nel suo complesso), sarebbe necessario che tutte le università fossero anzitutto di per sé dotate di certi requisiti minimi di capacità e quindi messe anche finanziariamente nelle condizioni di perseguire in modo efficace ciascuna delle missioni (il che al momento dovrebbe essere facilitato dalle risorse messe in campo da Next Generation EU).
A quanto detto si aggiunga che, nonostante negli ultimi anni si sia assistito ad un aumento degli sforzi orientati sia alla valutazione, sia alla realizzazione di attività di terza missione nelle diverse università, particolarmente rilevante è il ruolo ricoperto tanto dalla diversità dei territori (intesa anche nei termini di opportunità e fluidità degli scambi), quanto dalle peculiarità delle aree di ricerca, giacché, nello stesso processo di realizzazione di attività di terza missione, il coinvolgimento di attori non accademici è fondamentale. Ne deriva che in certe aree il lavoro dei ricercatori è reso più difficile che in altre aree. Ciò potrebbe condurre, per esempio, a sottostimare l’impatto di alcuni risultati di ricerca a vantaggio di altri, anche solo perché più semplice è la valutazione dell’impatto sulla comunità, se pensato meramente in termini di indicatori oggettivamente verificabili e (soprattutto) rilevabili in tempi brevi. In altre parole, il rischio con cui ci si confronta deriva dalla condizione che alcune attività si prestano ad essere registrate più facilmente, mentre altre rimangono nell’ombra o, nei casi più fortunati, non ricevono quella necessaria attenzione che invece meritano.
Ancora, quando si misura l’impatto di alcune ricerche, lo stesso processo di definizione di indicatori validi non è affatto ovvio. Se la valutazione di una data attività, in termini di entrate economiche, è relativamente facile e immediata, la valutazione causale degli effetti degli output di determinate azioni rispetto (ad esempio) alla loro capacità di sostenere la formulazione di una politica pubblica potrebbe sembrare più complessa. La difficoltà appena menzionata, tuttavia, non dovrebbe indurre i valutatori a non prendere in considerazione quegli sforzi orientati alla formulazione di una politica pubblica. Inoltre, a titolo di esempio, se da un lato il processo di valutazione di un’attività svolta per conto di soggetti esterni all’università, e che produce un certo reddito, è facilmente valutabile sulla base di indicatori quantitativi, dall’altro si dovrebbe necessariamente fare riferimento, più di quanto non si sia fatto finora, a indicatori qualitativi, purché formulati e scelti attraverso un processo scientifico, e quindi trasparenti e facili da verificare. Se è sufficientemente facile definire e monitorare certi effetti nell’arco temporale in cui si svolge la valutazione, che generalmente copre un triennio, quando si tratta del reale impatto di alcune ricerche – soprattutto per quanto riguarda le scienze sociali (sia per alcuni problemi pubblici, sia per certi esiti delle politiche pubbliche) – l’arco temporale da considerare dovrebbe essere normalmente più lungo. Questa affermazione è supportata dall’estrema varietà dei risultati empirici relativi agli sforzi delle università e degli enti di ricerca in riferimento al loro impegno pubblico. è pertanto consigliabile non solo utilizzare indicatori diversi, ma anche, più in generale, considerare attentamente i metodi da seguire nella valutazione delle attività di terza missione. Quanto detto sembra essere rilevante anche perché una maggiore attenzione agli effetti di alcune scelte metodologiche nella definizione degli obiettivi raggiunti dalla ricerca universitaria potrebbe certamente giovare anche alla definizione dell’impatto della ricerca stessa sulle politiche pubbliche, effetto, questo, che ancora oggi sembra trascurato, almeno nei principali rapporti di valutazione. Naturalmente, siamo consapevoli delle difficoltà che si possono incontrare nel valutare l’impatto di un determinato prodotto di ricerca sulle scelte politiche, almeno nel breve periodo. Ma, considerando il medio o il lungo periodo, un certo prodotto potrebbe arricchire il dibattito pubblico e/o l’indagine specialistica su un determinato argomento, e potrebbe quindi produrre risultati rilevanti che non sono valutabili (e magari nemmeno immaginabili) nel periodo (spesso troppo breve) preso in esame.
Con particolare riguardo alla TM sarebbe, in definitiva, auspicabile che anche le attività che hanno un impatto esterno sulle politiche pubbliche vengano considerate e appositamente sostenute, così come già da tempo avviene in altri paesi. Sotto questo profilo, le scienze sociali (spesso svantaggiate nell’allocazione delle risorse rispetto ad altre aree scientifiche) dovrebbero essere naturalmente valorizzate.
[1] Quanto qui argomentato si rifà in parte a G. Frazzica e A. La Spina, “Civic Engagement, External Impact and the Third Mission of Universities”, in Civic Engagement in Contemporary Italy, a cura di V. Pepe, Aracne
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