Regimi fiscali e visioni dell’Unione euopea
4 agosto 2021
Dopo l’estate inizierà la discussione sul futuro del Patto di stabilità e crescita (PSC), il perno del sistema fiscale dell’Eurozona momentaneamente sospeso. Già ora, però, gli schieramenti si stanno formando. Pochi giorni fa, in campagna elettorale, Armin Laschet, il candidato cristiano-democratico a prendere il posto di Angela Merkel, ha ribadito la necessità di ritornare, dopo la pandemia, alla “normalità” del PSC. Tre giorni fa, in un’intervista al Financial Times, Paolo Gentiloni, commissario europeo all’economia, ha invece sostenuto che “è chiaro che non possiamo ritornare alla normalità. Occorrono regole comuni corrispondenti alle sfide economiche che abbiamo di fronte”. L’Eurozona abbisogna di un framework fiscale per funzionare, ma la sua natura è oggetto di divisioni. Dopo tutto, la fiscalità è lo specchio che meglio riflette le differenti visioni politiche. Vediamo perché.
Nel dibattito europeo, regolazione fiscale e unione fiscale sono spesso usati come sinonimi, quasi fossero la stessa cosa. Non è così. Essi, infatti, rappresentano due tipi distinti di regime fiscale. Tra le unioni di stati, il regime di regolazione fiscale è stato adottato dall’Unione europea (Ue) e in particolare dall’Eurozona, il regime di unione fiscale è stato adottato dagli Stati Uniti. Per regolazione fiscale occorre intendere un regime in cui la sovranità fiscale è rimasta (formalmente) negli stati membri dell’Ue, anche se questi ultimi hanno concordato regole che vincolano (nei fatti) quella sovranità al punto di svuotarla. Nell’ultimo decennio, come risposta alla crisi dei debiti sovrani, l’Ue ha introdotto nuove regole fiscali (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) e definito una nuova procedura per il coordinamento delle politiche fiscali nazionali (Semestre europeo) il cui esito combinato è stato l’ingabbiamento dell’autonomia fiscale nazionale (in particolare degli stati debitori). Tale regime di regolazione fiscale ha indebolito le fiscalità nazionali senza creare una fiscalità sovranazionale, rendendo persino impraticabile il rispetto delle sue regole costitutive. Secondo l’European Fiscal Board, nel 2019 pre-pandemico, più di dieci Paesi non avevano rispettato gli aggiustamenti fiscali richiesti e tre Paesi non avevano ridotto il livello del loro debito secondo la temporalità prevista. Come se non bastasse, quel regime ha prodotto divisioni tra gli stati del nord e del sud dell’Eurozona, indebolendo le istituzioni sovranazionali (Commissione europea) a vantaggio di quelle intergovernative (Consiglio europeo).
Per unione fiscale (il regime adottato dagli Stati Uniti) occorre invece intendere una fiscalità condivisa tra gli stati federati e il centro federale, in virtù della quale gli uni e l’altro dispongono di una propria sovranità fiscale con cui sostenere le rispettive competenze (così come definite nel ‘contratto federale’, federal bargain, negoziato tra di esse). Attraverso il federal bargain, gli stati federati hanno riconosciuto un potere fiscale al centro federale e quest’ultimo ha riconosciuto agli stati federati una piena autonomia nell’estrazione delle risorse fiscali e nel loro utilizzo. Ciò ha avuto un doppio effetto. Ha democratizzato le istituzioni federali incaricate di gestire il budget derivante dal loro potere fiscale ed ha responsabilizzato gli stati federati rendendo possibile il loro fallimento per malgoverno (è avvenuto in più casi). Per Jonathan Rodden (nel suo Hamilton’s Paradox del 2006), è stato il budget federale, combinato con la pressione dei mercati, a contenere (bilanciandola) la fiscalità degli stati. Attraverso il budget federale, è stato possibile avviare politiche anticicliche o di sostegno alla crescita che mai gli stati avrebbero potuto promuovere da soli.
Per rispondere agli effetti economici della pandemia, l’Ue ha deciso di avviare un programma, Next Generation EU (NG-EU), che si avvicina alla logica dell’unione fiscale, anche se l’utilizzo dei suoi fondi (da parte degli stati beneficiari) avviene secondo la logica della regolazione fiscale. L’Ue si è così collocata in una terra intermedia tra i due regimi fiscali. Può ritornare alla regolazione fiscale, magari semplificando e aggiornando le regole, oppure può dotarsi di una sua capacità fiscale. Non cambierebbe molto, però, se quest’ultima venisse conseguita attraverso maggiori risorse finanziarie nazionali trasferite a Bruxelles (si rimarrebbe nel regime di regolazione fiscale), mentre cambierebbe molto se essa consistesse in un potere fiscale di Bruxelles basato su autonome fonti di finanziamento e autonome decisioni di spesa (avvicinandosi quindi al regime di unione fiscale). NG-EU costituisce un passo in quest’ultima direzione, in quanto l’accresciuta capacità fiscale è finanziata da debito europeo e non già da trasferimenti nazionali. Debito europeo accolto entusiasticamente dai mercati, se è vero, come ha detto a questo giornale il 23 luglio Johannes Hahn, commissario europeo alla programmazione finanziaria e al budget, che “le sottoscrizioni hanno superato fino a 12 volte l’offerta di bond europei”.
Insomma, se non si vuole ritornare alla vecchia normalità, occorre definire con chiarezza la strategia per costruire la nuova normalità. Si può riformare il regime di regolazione fiscale (senza metterne in discussione la logica), si possono fare passi in direzione del regime di unione fiscale (rendendo permanente il ricorso al debito europeo per sostenere le politiche comuni), si possono trovare combinazioni tra i due regimi fiscali. È bene però ricordarsi che dietro ogni strategia fiscale vi è la visione di ciò che dovrebbe essere l’Ue.
Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.
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