Il Presidente Biden e la riforma della US Supreme Court
9 settembre 2021
Hanno ormai superato la boa di metà percorso i lavori della Commissione presidenziale per la riforma della Corte Suprema statunitense, istituita dal Presidente Biden lo scorso aprile con l’Executive Order 14023.
La Commissione – coordinata da due Co-Chairs (Bob Bauer della NYU Law School, già consigliere del Presidente Obama, e Cristina Rodriguez della Yale Law School, già consigliere giuridico del Dipartimento di Giustizia) – sta svolgendo un lavoro intenso, che dovrà essere portato a compimento entro il mese di novembre. I lavori della Commissione sono articolati in sei panels (Panel #1: Perspectives from Supreme Court Practitioners and Views on the Confirmation Process; Panel #2: Perspectives on Supreme Court Reform I; Panel #3: Perspectives on Supreme Court Reform II; Panel #4: Term Limits and Turnover on the Supreme Court; Panel #5: Composition of the Supreme Court; Panel #6: Closing Reflections on the Supreme Court and Constitutional Governance). Attraverso un meccanismo di consultazione pubblica, sul sito della Commissione sono stati già raccolti più di milleduecento commenti, suggerimenti, proposte di singoli studiosi e di istituzioni. Soprattutto, sono stati tenuti tre public meetings (oltre a quello d’insediamento, il 19 maggio, quelli del 30 giugno e del 20 luglio), nel corso dei quali sono state svolte quarantasei audizioni di alcuni autorevoli studiosi di diritto costituzionale d’oltreoceano. Le testimonianze scritte degli interventi sono disponibili sul sito della Commissione.
Nella seduta del 20 luglio, Tom Ginsburg, della Chicago Law School, si è ad esempio espresso in favore della limitazione temporale della durata in carica e della necessità di frequente rotazione dei giudici della Corte Suprema: «I believe term limits and greater rotation of tenure would be desirable for the country. Age limits are a second-best solution».
Nella precedente seduta, del 30 giugno scorso, Nikolas Bowie, della Harvard Law School, ha argomentato la necessità che la Corte Suprema abbandoni l’atteggiamento tradizionalmente “aristocratico” e conservatore, rispondendo più fedelmente all’afflato democratico e alla propensione all’eguaglianza che pervade i cittadini statunitensi.
A prescindere dalla difficoltà di definire l’esatto tasso di propensione all’eguaglianza di una nazione e dei suoi cittadini, soprattutto per un paese così esteso territorialmente e divaricato culturalmente, esattamente spaccato in due nelle ultime tornate elettorali, l’interrogativo principale è se sia saggio modificare i meccanismi di funzionamento di una istituzione di garanzia costituzionale quale la Corte Suprema, che resistono intoccati da più di centocinquanta anni: correva l’anno 1869 e il Presidente era Ulysses S. Grant, il generale vincitore della Guerra di secessione americana.
Si tenga conto, in aggiunta, che, per apportare le riforme più ragionevoli (ad esempio, eliminare il mandato a vita dei giudici), sarebbe necessario un emendamento costituzionale, mentre le riforme ammissibili a costituzione invariata sono quelle che suscitano maggiori perplessità (ad esempio, il Court-packing, cioè l’aumento del numero dei componenti della Corte, per modificarne gli equilibri interni).
Ma come si è giunti a ragionare su un’ipotesi di riforma della Corte Suprema?
L’attuale composizione della Corte Suprema, certamente sbilanciata su posizioni conservatrici, rappresenta l’eredità della divisiva Presidenza Trump, la quale ha senza dubbio indebolito i capisaldi della democrazia statunitense.
Nel quadriennio di mandato, Donald Trump ha nominato ben tre giudici della Supreme Court: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett. Si è trattato di appointments particolarmente controversi, che hanno radicalizzato la contrapposizione politica e dato luogo ad una procedura senatoriale di conferma aspra e senza esclusione di colpi.
Uno tra i più autorevoli giudici della Corte Suprema, Stephen Breyer, ha giustamente rilevato come sia un errore traslare le ideologie politiche all’interno di un collegio giudicante, perché un giudice è un giurista e decide secondo logiche giuridiche, a prescindere dalle convinzioni personali e dalla parte politica del presidente che lo ha indicato. Negli ultimi anni, sono numerosi i casi in cui la Corte Suprema ha assunto decisioni non in linea con le posizioni dell’esecutivo: l’ultimo esempio è il più significativo, avendo la Corte rigettato all’unanimità l’impugnazione relativa all’esito delle ultime elezioni presidenziali.
Se questo è vero, è indubbio che la scelta dei presidenti di solito cade su esperti di diritto che, per cultura giuridica ed esperienze professionali, sono vicini alle posizioni, conservatrici o liberali, espresse dalla forza politica uscita vincitrice dalle elezioni presidenziali.
Se si va a guardare al partito politico del presidente che ha operato l’appointment, non si può negare che i tre giudici scelti da Trump abbiano determinato una brusca virata nella composizione del collegio. Sono rimasti soltanto tre i giudici indicati da presidenti democratici, a fronte di sei giudici selezionati da presidenti repubblicani.
Ad avviso della parte più progressista del partito democratico, in un’età di grande trasformazione quale quella attuale, la composizione conservatrice della Corte non è in grado di supportare il processo di cambiamento, che richiederebbe, da un lato, dinamicità e spinta all’innovazione e, dall’altro, attenzione alle diseguaglianze crescenti.
Mutatis mutandis, la situazione attuale ha punti di contatto con quella in cui si trovò Franklin Delano Roosevelt, negli anni Trenta del secolo scorso, con la necessità di realizzare il New Deal, un intenso programma keynesiano di investimenti pubblici, volto a introdurre importanti riforme economiche e sociali, dovendo confrontarsi con una composizione marcatamente conservatrice della Corte Suprema.
All’epoca accadde che il Presidente Roosevelt, dopo un lungo braccio di ferro, presentò al Congresso, dopo la schiacciante vittoria alle elezioni del 1937, il Court-packing Plan, un disegno di legge con il quale si prevedeva la nomina di ulteriori sei giudici della Corte Suprema. Il Senato, a maggioranza democratica, bocciò senza mezzi termini la proposta presidenziale. Di lì a poco, tuttavia, la minaccia di procedere alla riforma della Corte produsse i risultati attesi. Justice Owen Roberts, giudice di area repubblicana moderata, cambiò schieramento nel noto caso West Coast Hotel, votando, con il Chief Justice Charles Evans Hughes, assieme ai Three Musketeers di ispirazione democratico-progressista (Brandeis, Cardozo, Stone). Furono così lasciati in minoranza i Four Horsemen di stampo conservatore-repubblicano (Butler, McReynolds, Sutherland, Van Devanter). Il disegno di legge, dunque, determinò sulla Corte un effetto nudgizzante, disinnescando il contrasto istituzionale.
La trasformazione che non fu possibile operare dall’esterno, fu dunque rinvenuta all’interno dell’istituzione, seppure tramite una spinta esterna. La strada interna è auspicabile anche oggi, al fine di non alterare i rapporti tra organi costituzionali, fondati, come è noto, su delicati meccanismi di checks and balances.
Sulla falsariga del tentativo rooseveltiano di riforma, il 15 aprile 2021, qualche giorno dopo la nomina della Commissione presidenziale da parte del Presidente Biden, il senatore del Massachusetts, Edward J. Markey, assieme a tre deputati democratici, ha presentato al Congresso statunitense un nuovo Court-packing Plan, tramite un disegno di legge (il Judiciary Act of 2021) che prevede l’estensione a tredici (dai nove attuali) del numero di giudici della Corte Suprema.
Il Bill, pur avendo pochissime possibilità di approvazione, ha contribuito ad alimentare ulteriormente un dibattito già aspro. Come ha rilevato Justice Stephen Breyer, si corre il serio rischio di indebolire, di fronte all’opinione pubblica, l’aura di autorevolezza istituzionale della Corte Suprema e dell’intero sistema giudiziario.
D’altra parte, la forzatura del Court-packing è discutibile e pericolosa: da un lato, andrebbe a modificare un numero di componenti che, come ricordato, è immutato da più di un secolo e mezzo; dall’altro, indurrebbe probabilmente il prossimo presidente repubblicano, con un effetto domino, a intervenire ulteriormente sulla composizione del collegio.
Meglio sarebbe spostare l’attenzione su altri meccanismi istituzionali, che potrebbero spingere il titolare del mandato presidenziale, a prescindere dal colore politico, a scegliere giuristi di posizioni moderate. Ad esempio, si potrebbe prevedere che la conferma dell’appointee da parte del Senato debba necessariamente avvenire con consistente maggioranza qualificata: ciò imporrebbe il raggiungimento di un accordo politico tra maggioranza e minoranza. Anche questa ipotesi, indubbiamente vantaggiosa, non è tuttavia priva di controindicazioni: quanta ricchezza, in termini di pluralità di opinioni rappresentate, hanno dato alla Corte le riflessioni di Ruth Ginsburg o di Antonin Scalia (le quali hanno costituito, negli ultimi decenni, su opposte parti della barricata, le espressioni più estreme del collegio giudicante)?
Ai temi qui rapidamente sintetizzati ho dedicato un saggio (La tentazione del Court-packing della Corte Suprema e i rischi per la democrazia statunitense), in corso di pubblicazione nella Rivista trimestrale di diritto pubblico, nel quale mi soffermo sulle diverse possibili misure di riforma (e sui costi e vantaggi derivanti dall’introduzione di tali misure).
Sul piatto della bilancia vanno pesate due opposte esigenze: da una parte, vi è la spinta a riequilibrare la composizione del collegio giudicante; dall’altra, vi è però la necessità di salvaguardare la legittimazione istituzionale della Corte Suprema. Come sostenuto da Noah Feldman, della Harvard Law School, nell’audizione del 30 giugno scorso, «If the institutional legitimacy of the Supreme Court should be destroyed or significantly reduced, we would find ourselves far worse off than we are with respect to preserving the rule of law, fundamental rights, and democracy».
L’attività di approfondimento di una Commissione di studio può certamente produrre risultati positivi, consentendo di raccogliere materiali, di ragionare sulla qualità dei diversi argomenti, di formulare proposte e suggerimenti. Ma prima di varare una riforma della Corte Suprema (che si tratti di mero maquillage o di cambiamento organico), sarà bene operare con la dovuta prudenza.
Il quadriennio trumpiano ha già sensibilmente incrinato, sul piano della legittimazione, il sistema democratico statunitense. Un intervento poco ponderato sulle fondamenta dell’assetto giurisdizionale, infrangendo la tradizione secolare, potrebbe produrre una grave crisi del sistema. Adelante, Joe, con juicio, si puedes.
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