Il business model per l’esportazione rapida: i risultati di un’indagine empirica sulle imprese italiane
21 settembre 2021
Come mai alcune imprese esportano sin dai primi mesi dalla loro istituzione mentre altre necessitano di un lungo tempo di adattamento? A questa domanda offre una nuova risposta un recente lavoro pubblicato sul Journal of International Business Studies [1].
La teoria economica e gli studi di management hanno tradizionalmente considerato l’esportazione come l’ultimo stadio di un lungo processo di crescita delle imprese. In questa visione, le imprese iniziano a vendere i loro prodotti e servizi nel mercato domestico e poi, dopo una fase di studio e di analisi dei mercati e di conseguente adattamento del prodotto, entrano nei mercati esteri. Il processo è dunque graduale e relativamente lento; inizia tipicamente nei mercati più vicini geograficamente e più simili culturalmente, per poi espandersi potenzialmente a tutto il mondo. Ne discende che, dal punto di vista delle strategie di internazionalizzazione, la teoria economica suggeriva alle start up di consolidarsi prima sui mercati locali e, solo successivamente, di affrontare i mercati internazionali.
Questa visione tradizionale del processo di crescita delle imprese è stata negli ultimi anni messa in crisi dall’emergere del fenomeno delle imprese born global (BG) ovvero da quelle imprese che, fin dalla loro nascita, presentano tassi di internazionalizzazione – tipicamente misurati dalla percentuale di export sul fatturato – estremamente elevati. Il primo studio a individuare questa tipologie imprese è un lavoro di Rennie apparso, nel 1993, sul McKinsey Quarterly. Rennie osservò che una percentuale non trascurabile delle imprese australiane di recente istituzione presentava tassi di esportazione superiori al 25 del fatturato già nei primi tra anni di vita e definì queste imprese Born Global. Da allora il dibattito e la ricerca sulle imprese BG è stato significativo e intenso. In questi anni la ricerca ha chiaramente dimostrato che il fenomeno delle Born Global (anche chiamate International New ventures) è diffuso geograficamente e riguarda tutte le principali economie mondiali ma anche tutti i settori merceologici. E’ invece ancora aperta la questione – di grande rilevanza pratica – su quali siano i fattori che determinano la nascita di queste imprese. Cosa distingue le imprese che riescono fin da subito a esportare in maniera significativa da quelle che invece sono più lente sui mercati internazionali?
Per rispondere a questa domanda la letteratura si è inizialmente focalizzata sulle risorse che caratterizzano le imprese BG. Alcuni autori hanno quindi sostenuto che le BG sono prevalentemente imprese high-tech, altri autori hanno cercato di misurare l’orientamento internazionale dei fondatori/fondatrici delle imprese BG e hanno sostenuto che questa apertura dell’imprenditore/imprenditrice sia il motore che spiega la precoce internazionalizzazione. Da ultimo, altri studi hanno misurato il numero e l’intensità delle relazioni personali dei fondatori e delle fondatrici attribuendo a questa rete di relazioni la ragione della rapidità di entrata nei mercati internazionali.
In realtà nessuna di queste spiegazioni ha retto pienamente alle verifiche empiriche. Numerose sono infatti le imprese BG che operano in settori tradizionali – ad esempio il vino – un settore non prettamente high-tech. Allo stesso modo altre verifiche hanno mostrato come le imprese BG siano state fondate anche da imprenditori e imprenditrici con poca o nulla esperienza estera, scarsa conoscenza delle lingue e con una limitata rete di relazioni. Da soli questi elementi non sembrano dunque spiegare il fenomeno BG, tanto che in tempi recenti sono stati proposte spiegazioni alternative. In particolare l’attenzione si è soffermata sul ruolo dei business model quale fattore discriminante per una rapida internazionalizzazione.
Il ruolo dei business model nel promuovere la rapida internazionalizzazione tuttavia non era mai stato testato empiricamente, e questo sia per la difficoltà nel definire e misurare i diversi business model che per la complessità di reperire dati a riguardo. Il lavoro recentemente apparso sul Journal of International Business su un campione di imprese italiane è dunque il primo lavoro su una rivista scientifica internazionale che verifica empiricamente questa ipotesi.
Il contributo, realizzato insieme a due colleghi dell’Università di Tilburg e di Pavia ipotizza che le imprese BG abbiano come denominatore comune l’adozione di un modello di business che viene definito “strategia globale di nicchia” (global niche business model) e che si differenzia dai modelli di business di mass market. Per testare questa ipotesi un questionario ad hoc è stato somministrato a un ampio campione di imprese italiane nate dopo l’anno 2000. La conclusione dell’analisi conferma come l’adozione di questa tipologia di business model sia una condizione necessaria – ma non sufficiente – a permette alle aziende di esportare rapidamente raggiungendo lo stato di BG.
Ma quali sono le caratteristiche principali di una strategia di nicchia globale che lo studio identifica? La prima caratteristica è che l’impresa proponga prodotti (o servizi) altamente differenziati, con caratteristiche distintive che quindi si rivolgono a una fascia di consumatori estremamente limitata a livello nazionale ma significativa a livello globale. La distintività che caratterizza questi prodotti non è solo tecnologica ma riguarda anche il design, la qualità o anche solo la provenienza geografica. I consumatori di questi prodotti sono, di regola, degli esperti conoscitori del bene e hanno tendenzialmente caratteristiche omogenee anche se si trovano in paesi diversi. Questo permette alle imprese di non dover effettuare analisi di mercato (lunghe e impegnative) per adattare il prodotto ai mercati nazionali. La distintività dei prodotti garantisce inoltre la rapidità all’export anche da altri punti di vista. Il fatto che i consumatori siano esperti fa sì che, frequentemente, siano gli stessi consumatori a rivolgersi ai fornitori permettendo così alle imprese di risparmiare tempo limitando i costi di marketing. Inoltre, la peculiarità dei prodotti fa sì che l’elasticità di prezzo sia più bassa e che le imprese possano quindi assorbire i costi di esportazione senza dover realizzare reti distributive o trasferire la produzione verso i mercati di sbocco, tutte operazioni che richiedono tempo e quindi rallentano il processo di internazionalizzazione. Esempi di imprese di questo genere sono Pagani, il produttore di supercar con sede vicino a Modena o Interna un’azienda che da Udine ha servito con progetti “chiavi in mano” alcuni tra i più importanti hotel di lusso nel mondo.
La rilevanza dell’adozione di un business model di nicchia per spiegare la rapida internazionalizzazione è confermata dalle analisi econometriche del campione di imprese italiane svolte nel lavoro.
Il grafico che segue riporta in ascissa l’età delle imprese (espressa in mesi) e in ordinata il numero di imprese del campione analizzato che raggiungono lo stato di BG ovvero che esportano almeno il 25% del loro fatturato distinguendo le imprese che hanno un business model di nicchia globale (linea rossa) da quelle che seguono un modello definito di tipo mass-market (linea blu tratteggiata).
Il grafico è molto chiaro e mostra come già dopo 10 mesi dalla nascita, la linea continua rossa che rappresenta le imprese con un business model di nicchia globale tendano a raggiungere lo status di BG in maniera molto più significativa rispetto alle imprese – rappresentate dalla linea blu – che seguono un business model del tipo mass market.
Figura 1: L’evoluzione delle imprese del campione: percentuale di imprese del campione che raggiungono lo stato di BG nei primi mesi di vita dalla fondazione
Questi primi risultati- che ovviamente richiedono ulteriori analisi e conferme – hanno tuttavia una significativa rilevanza pratica, soprattutto in un paese, come l’Italia, fortemente orientato all’export.
La prima è che non tutte le start ups hanno business model compatibili con una rapida internazionalizzazione. Chi punta sul mass market può ovviamente puntare ad aver successo sui mercati esteri, ma per queste imprese la teoria classica dell’internazionalizzazione lenta (per stadi) è ancora tendenzialmente valida. La seconda conclusione è che il fattore dimensionale di impresa non sembra essere rilevante, per internazionalizzarsi rapidamente non è necessario avere dimensioni di impresa rilevanti ma adottare il corretto business model. Va sottolineato però che il nostro lavoro analizza unicamente le imprese solo nei primi anni di vita (l’età massima delle imprese nel campione è di 14 anni). Cosa accade e cosa sia necessario per avere successo sui mercati internazionali nel lungo periodo sono due temi che la ricerca non affronta.
Da ultimo queste conclusioni possono essere utili per orientare tutti i programmi pubblici per il sostegno all’internazionalizzazione delle imprese. Il tema è oggi particolarmente rilevante dato che i Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) recentemente presentato dal governo italiano alla Commissione europea destina circa 1,2 miliardi di Euro al sostegno dell’internazionalizzazione delle imprese. Un migliore conoscenza del fenomeno è fondamentale per poter implementare programmi che siano di effettivo supporto alle imprese italiane.
[1] What’s so special about born globals, their entrepreneurs, or their business model? – JF Hennart, A Majocchi, B Hagen, Journal of International Business Studies, 1-30
https://link.springer.com/article/10.1057/s41267-021-00427-0
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